di Mimmo Moccia
Il 20 marzo del 2010, in un teatro Valle gremito anche nel loggione, si tenne l’assemblea nazionale della mozione congressuale : LA CGIL CHE VOGLIAMO.
I temi principali erano : il superamento della moderazione salariale, l’estensione dell’articolo 18 a tutti i lavoratori, l’eliminazione dei contratti di collaborazione e l’eliminazione del lavoro in somministrazione, l’eguaglianza di diritti e retribuzioni tra i generi, la necessità di una radicale trasformazione della CGIL considerata un’organizzazione chiusa, autoreferenziale e burocratizzata, la ricostruzione di un’autentica democrazia sindacale a partire dai luoghi di lavoro.
La mozione annoverò tra i maggiori, più convinti, rappresentativi e infervorati protagonisti Maurizio Landini.
In questi giorni si è tenuto il Congresso della CGIL, anche se sarebbe più appropriato definirlo kermesse, considerato che agli oltre novecento delegati, come ha evidenziato la stampa, è stato riservato il 20% del tempo a disposizione perché l’altro 80% è stato appannaggio di interviste, tavole rotonde, incontri vari, saluti e contributo della Presidente del Consiglio Meloni. Se è consentita una critica io lamenterei l’assenza di ricchi premi e cotillons.
E’ superfluo sottolineare che il tutto ha avuto un notevole risalto e un’adeguata enfasi su tutti i media. D’altra parte come scrisse Arthur Bloch: “ Oggi un grammo di visibilità vale più di un chilo di fatti”, né vanno dimenticate le parole che Andy Wharol pronunciò nel 1968: “ Ognuno sarà famoso per quindici minuti “.
La gravità della situazione sociale, i rischi che corre la democrazia con questo governo, però non hanno bisogno di brillanti luccichii, di effimere promesse, di rituali e liturgie .
Il più basso livello di occupazione in Europa, la più alta disoccupazione giovanile, una media salariale inferiore del 30% rispetto a quella europea, la più pesante imposizione fiscale, la più elevata disuguaglianza tra uomini e donne, la più iniqua disparità generazionale e territoriale, la più ampia fascia di povertà hanno bisogno di trovare rappresentanza e risposte e gli uomini e le donne vittime di questa situazione, invertendo le parole di Kennedy, hanno il diritto di chiedere cosa ha fatto per noi la CGIL in questi anni?
Parole, parole, soltanto parole, i bei versi di una canzone di Mina sono la risposta.
In questi ultimi quattro anni la CGIL si è dedicata con convinta determinazione a quello che Marx nel secondo libro del Capitale definì: “ Prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire “.
Testimonianza solare ne sono l’irrilevanza quotidianamente certificata nei luoghi di lavoro, nei territori, nei confronti delle controparti e del governo; la desertificazione delle sedi sindacali; il crollo del consenso; l’orientamento elettorale degli iscritti così come analizzato dagli istituti demoscopici; le pluriennali e irrisolte crisi aziendali; l’autorganizzazione operaia per sopperire al deficit di protagonismo; l’irrecuperabile iato che si è creato con le nuove generazioni.
Questo congresso ha dimostrato con cartesiana evidenza che la CGIL è , ormai, un’organizzazione autoreferenziale, che vive uno stato di avanzata obsolescenza e che ha trasformato la democrazia interna in un modello fondato esclusivamente sulla fidelizzazione e la dialettica in supino e subalterno consenso.
Ad essa si attaglia perfettamente quanto lessi in un libro di Cipolla: “ Negoziò con durezza e intransigenza, poi aprì il pugno serrato e vide volare le mosche “
Questa CGIL quale futuro potrà mai avere?
Non aspettarti nessuna risposta tranne la tua. ( Brecht )
Il 21 febbraio 2016 sul blog Previtenda pubblicammo questo post dal titolo “le radici della luna”. Accanto alla profonda riflessione di Mimmo ci sembrava giusto riproporlo.
“Il secondo dopoguerra italiano è un vicenda di soggettività mischiate, di attori che si incrociano e si influenzano, configgono anche si incontrano. Ma su quell’emersione agirono insieme irruzioni spontanee e contemporaneamente culture organizzate presenti sul campo e da tempo in ricerca. Tale fu l’intreccio e l’ambiguità delle cose. E – punto cruciale – nell’assemblea di fabbrica intervenivano tutti: anche i non iscritti al sindacato. E con potere di voto. E quell’intreccio mi sembrava illuminante sul processo in cui formava e si articolava, nella molteplicità del suo divenire, il complesso soggetto sociale eversore ed innovatore. “La rivoluzione non era più l’insorgenza – eroica e geniale – di un’avanguardia illuminata, ma la costruzione multipla ed articolata di un soggettività polimorfa”.
(Volevo la luna – P. Ingrao)
Ecco qui, la frase di Pietro ci racconta molto del nostro presente.
Il “nemico” è il comune denominatore della politica.
I muri o i fili spinati sono le mani con cui accompagniamo i nostri gesti quotidiani.
Il conflitto, l’esclusione hanno conquistato oramai il vocabolario sociale.
Rifugiarsi nelle regole o meglio nella disciplina ottusa serve solo ad allontanarci dalla primitiva verità delle cose.
Epilogo triste: si espelle, si multa per la gioia di un falso testosterone divenuto suo malgrado politica.
Non ci resta che rifugiarci nella nostra tenda, evocatrice di cielo e di luna; capace di restituirci l’armonia nella ricerca di una democrazia che sorprende e si sorprende dentro le note indignate o forse nelle pieghe di una voce colma di umile coraggio.