Tutto oro quel che luce?

 

di Ugo Balzametti

(terza parte)

Durante il lockdown, in Italia un lavoratore su tre si è dovuto fermare del tutto, 7.3 milioni di lavoratori sono rimasti inattivi, il 31% del totale. Quelli che hanno continuato a lavorare da casa sono stati e sono circa 4 milioni.
Lo smartworking è prepotentemente entrato nella nostra vita quotidiana e ha dimostrato di poter funzionare sia per la P.A sia per la didattica a distanza e nel settore del terziario avanzato. Senza questa alternativa, a causa del distanziamento sociale, interi settori dell’economia sarebbero falliti.
La fuga generale da potenziali focolai di Covid-19 ha spinto le aziende ad utilizzare le opportunità offerte dalla digitalizzazione chiudendo sedi e mandando a casa quasi l’80% dei lavoratori.
Molte aziende si sono trovate impreparate per la mancanza di una governance chiara. Il ricorso al lavoro agile non è stato accompagnato dal controllo sulle variabili che definiscono in modo corretto l’impiego delle lavoratrici e dei lavoratori.
Come abbiamo detto in precedenza, quello che si sta sperimentando in questo periodo di emergenza non è smartworking bensì telelavoro, con la conseguenza che il lavoratore o la lavoratrice non ha avuto possibilità di scelta e non è stato approntato nessun accordo .
Negli ultimi anni, grazie ai media, soprattutto la stampa specializzata, si è sviluppata una posizione molto favorevole allo smartworking, tra retorica ed esaltazione, poiché viene considerata una pratica di rottura con il passato, sinonimo di una nuova mentalità e per questo progressista. Una campagna di persuasione occulta.
Viene sempre sottolineato il beneficio per il lavoratore in termini di bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. Il lavoro agile sul piano lavorativo riduce il cartaceo, riduce gli spazi, aumenta la produttività, riduce la competizione, salvaguardia l’ambiente; sul piano personale riduce gli spostamenti, restituisce tempo libero e riduce lo stress.
L’esperienza maturata ci dice che le aziende hanno adottato lo smart working coinvolgendo soprattutto lavoratori con qualifiche e redditi alti, in prevalenza uomini, garantendo loro il posto di lavoro e accentuando, in questo modo, le disuguaglianze sociali, mentre hanno ridotto l’impiego di lavoratori con basse qualifiche, ampliando il rischio di emarginazione o persino la perdita del posto di lavoro.
Per questo servono politiche di sostegno al reddito per le fasce più deboli, ma soprattutto politiche di formazione continua per i lavoratori più vulnerabili, affinché il lavoro da remoto sia un’opportunità per tutti e non una scelta di pochi.
Le aziende ci hanno sicuramente guadagnato, grazie ai risparmi sulle spese e sui costi di gestione, sui rimborsi, sulle trasferte e sui buoni pasto, sul pagamento delle utenze e sulla razionalizzazione degli spazi. Si sono azzerati i giorni di assenza e di malattia.
Secondo dati forniti dall’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano questa modalità di lavoro ha determinato un incremento di produttività pari a circa 15% per lavoratore, una riduzione del tasso di assenteismo pari al 20%, risparmi sui costi di gestione degli spazi fisici pari al 30%, un eccesso di 20 ore lavorate in più in un mese.
Se pensiamo che i lavoratori impegnati sul lavoro agile sono almeno 5 milioni e che gli smart worker ad oggi sono circa 570 mila, l’incremento della produttività si aggira intorno ai 15 miliardi di euro.
A tal proposito è nato ColleghiAmoillavoro, la prima piattaforma che permette di quantificare il lavoro a distanza, quantificare in primo luogo il risparmio di tempo legato al lavoro remoto. Un italiano su quattro impiega 90’ per recarsi sul luogo di lavoro e tornare a casa. Questo significa che in una settimana questo tempo equivale ad una giornata di ferie.
Nello stesso tempo il lavoratore, non dovendo recarsi nel posto di lavoro, ha speso molto meno, risparmiando su tutte quelle spese prevedibili e non, che si affrontano quando si esce da casa. Di contro si tende a consumare più luce elettrica, probabile che aumentino anche le spese per il riscaldamento, e le spese per pulire gli ambienti in cui si lavora. Non si capisce perché non viene dato il buono pasto.

Se i benefici vengono presentati come fonte di emancipazione del lavoratore, dobbiamo rilevare insieme gli aspetti negativi. Non è tutto oro quello che brilla.
Per lavorare da casa occorrono competenze specifiche, soprattutto l’uso di strumenti, piattaforme e tecnologie informatiche ma anche capacità di organizzare in modo autonomo il proprio lavoro, la relazione tra i colleghi e il responsabile, la gestione dello stress.
Il tempo libero come tempo per se stessi rischia di essere fagocitato da un’attività lavorativa continua e senza confini, per questo parliamo del diritto alla disconnessione ; il potenziale svuotamento dell’esperienza di lavoro che si fonda sullo scambio di idee e sulla socializzazione del gruppo; le relazioni tra colleghi condizionate dalla pervasività delle tecnologie che fanno sentire la persona sola; la riduzione del lavoratore a mero obbiettivo prestazione-risultato.
Da quando si è fatto ricorso al lavoro agile una schiera di insegnanti, di bancarie, d’impiegate della P.A hanno dovuto trasferire il loro lavoro a casa, sommandolo al già pesante lavoro di cura per la famiglia.
Lavorare da casa vuol dire lavorare in spazi ricavati in una parte separata o più spesso riorganizzando aree come il soggiorno oppure spostandosi all’interno della casa in relazione agli impegni di altri famigliari. La difficoltà di avere una spazio autonomo è ostacolo concreto.
Di conseguenza il layout fisico degli spazi di lavoro, la progettazione degli ambienti è fondamentale per garantire un luogo che soddisfi le esigenze professionali della persona.
Nel lavorare da casa, molte volte, si presta poca attenzione al diritto alla disconnessione e al controllo a distanza. Maggiore attenzione va al riciclo dell’aria, alla tutela della privacy, alla correttezza della postazione di lavoro, alle pause.
Per gli uomini è più comune avere un computer personale e fornito dall’azienda, le donne invece sono spesso costrette a ricorrere alla condivisione del computer.
Spesso si parla di smart working collegandolo solo al luogo di lavoro, alla dimensione dello spazio. In realtà questa modalità di lavoro implica anche una diversa gestione del tempo.
Circa la gestione degli orari, specie delle lavoratrici, si smarrisce la linea di confine tra sfera privata e sfera pubblica, con un aumento dei tempi e dei ritmi di lavoro. A volte si può verificare una reperibilità 24 ore su 24, subendo una brutale invasione del tempo libero.
Capita spesso che, grazie alla tecnologia, si rimanga sempre connessi oppure che il proprio dirigente approfitti di questa opportunità e che il lavoratore non abbia il coraggio di difendere il suo diritto a non superare le classiche 8 ore, a non leggere e-mail a qualsiasi ora, a non dover partecipare alle call telefonico o alle video conferenze al di fuori del proprio orario giornaliero, oltre il quale diventa straordinario che a volte non è neanche retribuito.
Se l’organizzazione prevede che si lavori 4 ore al giorno per 7 giorni su 7 è accettabile a patto che sia una scelta concordata con il dipendente. Diverso è il discorso se, invece, è il datore di lavoro a chiedere una disponibilità continua.
Le prime inchieste sul lavoro agile hanno rilevato che in media si è lavorato 3 ore in più al giorno rispetto ai normali orari, con conseguenti problemi di ansia e di stress legato all’uso di nuove e più sofisticate tecnologie . Quest’ultimo riconosciuto come malattia professionale dal Tribunale di Torino.
Alla lunga il rischio di effetti negativi sia per il lavoratore che per l’azienda è reale. Chi non stacca mai va incontro a deficit di attenzione; le pause sono una necessità biologica e psicologica.
Ci sono però ritorni negativi anche per il datore di lavoro che registrerà produttività minore proprio a causa del logoramento del dipendente a rischio burnaut (bruciato, fuso).
Se la flessibilità d’orario presenta vantaggi per la conciliazione di lavoro e famiglia, lo è meno per le relazioni umane e per una differenza tra tempo di lavoro e tempo libero. Il rischio di solitudine è reale e il rapporto “ faccia a faccia” per i lavoratori agili è più difficile.
Si sottolinea spesso che il lavoro intelligente presenta importanti vantaggi sull’abbattimento dei tempo di spostamento, con conseguente riduzione dell’inquinamento.
C’è da rilevare di contro che l’ ambiente di lavoro non ne beneficia in quanto il consumo di energia è legato al funzionamento di internet.
Ogni ricerca sul web emette nell’atmosfera 7 grammi di Co2, spedire una e-mail costerebbe 4 grammi di Co2 e assorbirebbe 25 wattora, ogni secondo di navigazione in internet produrrebbe 0,2 grammi di anidride carbonica, mentre un’ora di video in streaming equivarrebbe al consumo giornaliero di un frigorifero.
Insidie ci sono anche per la salute, perché tante ore davanti ad uno schermo provocano affaticamento della vista e stanchezza oculare.
La realtà finora tratteggiata ci fa dire che anche in materia di tutela della salute, il datore di lavoro è obbligato alla valutazione di tutti i rischi compreso lo stress correlato.
Questa condizione ad esempio si determina quando il dipendente, obbligato ad accettare lo smart working, non ha la possibilità fisica di inserire una normale postazione di lavoro in casa o a lavorare con il computer per una oggettiva assenza di spazio o per la presenza di un numero elevato di famigliari.
Altro aspetto importante è quello della cybersicurezza. Tre dipendenti su quattro alle prese con il lavoro da remoto sono a rischio hackeraggio in quanto non hanno avuto una formazione adeguata per proteggersi dalle insidie della rete.
IL download (scaricare) inconsapevole di contenuti malevoli può portare virus nei dispositivi informatici ,alla compromissione dei dati aziendali. Inoltre in questi mesi è aumentato il ricorso a servizi on line come le app per le video conferenze o la messaggistica istantanea.
Alcune piattaforme che vengono utilizzate per le video chiamate possono essere controllate da remoto dalle aziende e sono capaci di attivare in autonomia le webcam delle apparecchiature dei lavoratori
Grazie a questo controllo possono assicurarsi che i lavoratori non si allontanino dalla postazione di lavoro o come stanno utilizzando il loro tempo di lavoro.
Uno di questi, ad esempio, è HubStaff che addirittura si spinge a registrare i tasti sulla tastiera del lavoratore, i movimenti del mouse, e ovviamente la cronologia dei siti visitati. Time Doctor va ancora più oltre realizzando video per monitorare le attività.
A completare questo quadro, dall’Inghilterra arriva Isaak che mette sotto la lente di ingrandimento le interazioni tra colleghi per capire, ad esempio, chi collabora di più e incrocia questi dati con i file personali.
C’è chi pensa ad una società che enfatizzi l’algocrazia cioè quella particolare forma di governo delle relazioni dove il lavoro è gestito da algoritmi per il funzionamento delle piattaforme digitali.
Ma in che modo la valutazione della qualità del lavoro può essere misurata attraverso l’impiego di algoritmi ,senza sapere chi e come e in base a quali obbiettivi sono stati scelti certi codici? S’ interrompe totalmente il rapporto di fiducia e di reciprocità io composto da lavoratori telecomandati, mentre i responsabili degli uffici si muovono liberamente.
L’idea che più ci inquieta è che premiare o riprendere i lavoratori dipenda da un numeretto stabilito da un programma che valuta i loro risultati. La questione si fa più preoccupante quando quelle valutazioni vengono utilizzate per capire chi resta e chi diventa un esubero. Insomma quando diventa un’ arma invisibile nelle mani dei manager suggerendo una falsa obiettività delle loro valutazioni sulla base di dati impostati a monte.
In definitiva saranno gli algoritmi a guidare i processi decisionali: ci illudiamo di essere in una relazione con gli altri mentre in realtà veniamo orientati nelle nostre scelte da chi quegli algoritmi ha imposto, con la conseguente negazione degli spazi decisionali.
Che fine ha fatto il rapporto di fiducia, la definizione degli obiettivi, l’autonomia, la libertà di scegliere dove come e quanto lavorare, la valorizzazione del lavoratore e della sua dignità? E’ una questione molto seria che investe le regole del vivere civile, in altre parole si pone una preoccupante questione democratica.

Informazioni su Walter Bottoni

Nato il primo settembre 1954 a Monte San Giovanni Campano, ha lavorato al Monte dei Paschi. Dal 2001 al 2014 è stato amministratore dei Fondi pensione del personale. Successivamente approda nel cda del Fondo Cometa dei metalmeccanici dove resta fino 2016. Attualmente collabora con la Società di Rating di sostenibilità Standard Ethics.
Questa voce è stata pubblicata in Comunità sociale. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento