SOCIAL IMPACT INVESTMENTS INTERNATIONAL CONFERENCE 6TH EDITION, UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA 2 dicembre 2022.
Jacopo Schettini Gherardini, Direttore di Standard Ethics
Il peso incontrollato degli investitori sulle valutazioni ESG e l’eterogeneità delle loro opinioni sono fattori destinati a creare gravi problemi nello sviluppo della finanza sostenibile e ripercussioni negative sulle aziende quotate.
Occorre però essere chiari su un punto: imporre al mondo dell’asset management un sistema tale da ottenere valutazioni uniformi è una strada priva di senso.
Quando un investitore istituzionale valuta direttamente (o attraverso i suoi consulenti) degli asset presenti nel proprio portafoglio, o che vi potrebbero entrare, non deve essere né oggettivo né uniforme agli altri concorrenti, perché deve applicare la propria visione di mercato. Deve adottare metriche di valutazione legate al profilo di rischio dei propri fondi di investimento ed agli obiettivi dei propri asset manager tenuto conto della propria visione di mercato. E sappiamo perfettamente che gli asset manager hanno normalmente idee diverse perfino su uno stesso titolo quotato. Poi, nel caso dei fondi ESG, abbiamo maggiore complessità, molti di questi applicano criteri originali che non sempre hanno a che fare con obbiettivi internazionali in materia di sostenibilità.
Questa diversità e queste divergenze interpretative sono positive e fondamentali per la competizione tra fondi di investimento. Sono la ragione per la quale abbiamo un mercato aperto, dinamico, in grado di offrire numerosi prodotti finanziari ai risparmiatori.
Ovviamente, le opinioni di un asset manager, o di un suo consulente, sono importanti per le società quotate perché possono rivelarsi fondamentali per farle accedere al portafoglio di un fondo o in un indice. Ma la loro rilevanza non ha nulla a che fare con la loro oggettività.
Il compito di un fondo di investimento non è quello di essere oggettivo oppure uniforme ai suoi concorrenti, ma perseguire i suoi interessi, che non sono interessi generali, ma sono quelli dei suoi sottoscrittori. Ecco perché chiedere regole chiare e trasparenza anche in materia ESG è legittimo, ma chiedere giudizi e metodologie uniformi è illogico.
Il problema dell’oggettività dei giudizi ESG non è quindi risolvibile eliminando le diversità e le difformità interpretative tra gli investitori, ma risiede altrove.
Un problema analogo si verificò lo scorso secolo quando il mercato chiese opinioni più oggettive ed uniformi su un tema cruciale: quello dell’affidabilità degli emittenti. Non ci volle molto a capire che questo tipo di opinioni non potevano essere pretese dal mondo degli investitori proprio per le ragioni viste sopra. Venne quindi concettualmente distinta l’opinione proveniente dagli investitori da quella affidata ad agenzie specializzate indipendenti, le quali avrebbero emesso opinioni uniformi e metodologicamente coerenti chiamate “rating”.
Questo passo non è ancora stato fatto in relazione alle valutazioni ESG. Non solo, siamo lontani dal compierlo e siamo ancora lontani dal comprendere l’urgenza di un uso adeguato della terminologia che specifichi il tipo di opinione che abbiamo davanti e chiarisca a che livello del processo decisionale si colloca.
Cerchiamo, in sintesi, di comprendere quale sia la differenza tra una opinione che proviene dagli investitori ed una che proviene da agenzie indipendenti. Osserviamo l’esperienza dei rating di merito creditizio – che comunque potrebbe essere migliorabile.
Da un punto di vista generale, l’opinione che nasce nell’ambito degli investitori è per definizione soggettiva. Lo è perché deve adottare metriche conformi alle esigenze di asset management. Gli stessi data provider ed analisti si devono conformare a queste esigenze. Inoltre, e non secondario, si tratta di valutazioni che potrebbero essere riservate e divulgate da un consulente solo al proprio cliente investitore.
La seconda tipologia di opinioni che possiamo chiamare “rating”, non segue logiche di mercato: non deve essere conforme ai modelli richiesti dai fondi di investimento ma deve essere conforme ai modelli di analisi del rischio applicabile agli emittenti. Utilizza degli algoritmi su base assoluta validati dai regolatori, i quali non possono essere modificati o interpretabili dal cliente. Si tratta di un giudizio sintetico, chiaro e diretto, che viene reso pubblico a beneficio di tutto il mercato perché non deve produrre un vantaggio per un fondo su un altro.
I modelli di business sottostanti i due giudizi sono anch’essi molto diversi: investor pay-model o applicant pay-model. I due modelli generano significative differenze per metodologie e per procedure adottate, perché gestiscono diversi tipi di conflitti di interesse e sono concepite per attività distinte.
Nel caso di opinioni (anche ESG) nate per aiutare la gestione dei portafogli – siano esse derivate da analisti interni alla casa di gestione o dal lavoro di consulenti esterni – la metodologia adottata è principalmente basata su KPI e sulla possibilità di modificare il peso dei KPI in base alle necessità dell’asset manager. Ne derivano degli scoring modulabili e divisi per aree di analisi così da scomporre il giudizio, rendere più interpretabile l’opinione in base alle necessità di portafoglio. L’opinione viene concepita per essere abbastanza flessibile ed aperta per soddisfare le variegate esigenze dell’utilizzatore finale. Chi produce l’analisi segue questa impostazione per permettere agli utilizzatori di focalizzarsi sui temi a loro più utili. Inoltre, sono comparazioni massive, con largo uso di software per la raccolta di dati attraverso schemi prestabiliti e rigidi, sia per coprire il più ampio spettro possibile di titoli quotati, sia per effettuare comparazioni settoriali anche per singoli KPI predefiniti. D’altronde, gli utilizzatori finali necessitano di informazioni sul numero più alto possibili di titoli eleggibili, ed anche di poter fare comparazioni per settori omogenei a causa dei vincoli gestionali che essi hanno e che li obbligano a mantenersi dentro alcuni benchmark e profili di investimento dichiarati ai sottoscrittori.
Nel caso dell’applicant pay-model (utilizzato dalle agenzie di rating) è diverso perché il cliente non è un investitore ma un emittente (applicant) il quale ha esigenze radicalmente differenti: il cliente intende essere messo a confronto con altri che hanno richiesto quel servizio. Chiede quindi una valutazione destinata ad essere pubblica e su base assoluta. Nel caso del rating di merito creditizio, il concetto è ovvio: il rischio di default è la nozione assoluta. Il punto di centrale per l’agenzia sarà comunicare se il cliente può fare fronte o meno ai suoi debiti, al di là del settore di appartenenza. Per fare questo, l’analisi sarà basata su un calcolo algoritmico ed olistico. Algoritmico perché al termine della analisi, che partirà dal particolare per giungere a livello sistemico, verrà usato il medesimo sistema di calcolo per confrontare i vari clienti. Concetto perfettamente applicabile anche ad una valutazione ESG. Anche la raccolta di informazioni alla base del rating è molto differente rispetto al sistema di scoring: alimentare data base per ragioni di consulenza non è il motivo del lavoro, quindi schematizzare l’analisi per KPI non ha senso e prevale l’approfondimento; non vengono adottati schemi che ingabbiano la raccolta dati; il processo è effettuato da personale altamente specializzato, non da software; l’interazione con il cliente è molto elevata per assicurare l’accuratezza dei dati. Anche nel caso di rating “unsolicited”, il processo e la metodologia dell’agenzia non muta in modo sostanziale.
Inoltre, si richiederà all’agenzia un alto grado di indipendenza. Come abbiamo visto, l’agenzia non solo non si preoccupa delle esigenze gestionali dei fondi di investimenti o dei loro obbiettivi di investimento, ma deve essere indipendente anche dai legislatori, da organizzazioni o associazioni portatrici di interessi di qualche genere, anche etici.
Alla fine avremo una opinione rigida, sintetica, non negoziabile, non interpretabile. Essa risponderà all’esigenza della comparabilità, della leggibilità ed una certa prevedibilità a beneficio del mercato. Per queste caratteristiche, parliamo di una opinione di primo livello propedeutica a successive analisi. Sarà inoltre destinata ad essere considerata da un ampio ventaglio di soggetti: non solo asset manager, ma anche istituti di credito; piccoli risparmiatori; consulenti finanziari; operatori di private equity; banche centrali; mercati regolamentati; opinione pubblica.
Ci troviamo, quindi, di fronte a due approcci diversi per due esigenze diverse: da un lato la necessità da parte di un asset manager di avere un data base da cui trarre le informazioni utili a maneggiare il proprio portafoglio, dall’altro, l’esigenza del mercato e dell’applicant di produrre un giudizio olistico, pubblico ed immediatamente fruibile circa il rischio, o il grado di “compliance”. La mancata distinzione sostanziale o semantica di queste due tipologie di opinioni nel mondo ESG, crea impatti negativi a vari livelli.
Sul piano scientifico, significa effettuare comparazioni senza soffermarsi sulla reale natura delle opinioni esaminate; dei soggetti che le formulano; dell’uso per cui nascono, ciò determina risultati deboli, se non arbitrari. Sarebbe come se venissero confrontati in un unico calderone e senza distinzione, sia i rating di merito creditizio e sia le raccomandazioni di “buy” o “sell” dei broker. Quale sarebbe la ratio? Così come studi comprativi più solidi, che si focalizzano solo sulle divergenze tra scoring ESG il cui uso e la cui finalità sono legate all’attività di asset management, sono comparazioni utili a dimostrare come gli investitori abbiano visioni diverse. Una conclusione giusta che non dice nulla.
Sul piano istituzionale e dei regolatori, non fare questa distinzione, significa affrontare eventuali future regolamentazioni in modo irrazionale.
In riferimento al mercato, studi ed osservazioni fatte recentemente, come le indagini sul settore delle valutazioni ESG dell’Esma e dell’Unione Europea pubblicate nel primo semestre del 2022, dimostrano come le aziende quotate soffrano questa incertezza. Esse sono in difficoltà a far comprendere ai propri stakeholder quando una valutazione sia relativa al loro posizionamento rispetto alle strategie di sostenibilità provenienti dalle organizzazioni internazionali, e quando invece sia relativa alle attese di un singolo investitore o di un singolo indice.
Per risolvere questi problemi, non ci sarebbe bisogno di una regolamentazione dura, basterebbe creare due albi differenti a seconda del business che un valutatore ESG intende seguire e chiarire per chi lavora. Possibilmente, rendere incompatibile la presenza dello stesso valutatore nei due albi, altrimenti sarebbe fatica sprecata. Così come la contemporanea presenza della stessa agenzia nell’albo delle agenzie di rating di merito creditizio e in quello futuro dei “rater” ESG, aprirebbe la strada ad altri conflitti di interesse che sarebbe meglio evitare.
Fare nulla, indurrà gli investitori e gli ESG data provider a loro servizio ad essere sempre più invasivi, attribuendo alle loro opinioni da “giocatori” – quali sono – una funzione maggiore di quella che dovrebbero avere. Inoltre, si annullerebbe un principio cardine dalla sostenibilità: la sostenibilità è una nozione che riguarda il pianeta e le future generazioni, la delega a stabilire cosa sia o meno sostenibile non viene data dai cittadini e dai governi alle banche o agli investitori, bensì alle grandi organizzazioni internazionali come l’Onu, l’Ocse o la Ue. Quello che può fare un rating di sostenibilità, è solo misurare la distanza tra una azienda e le indicazioni internazionali. Non dovrebbe essere confuso con quella opinione si secondo livello che misura la distanza tra una azienda e la sua appetibilità per un fondo d’investimento.