La Guerra in Ucraina è anche una catastrofe ambientale

di Ugo Balzametti 

E’ lecito essere contro la guerra? 

Mai come oggi soffiano venti di guerra tra le comunità  del nostro Pianeta che evidenzia sempre di più segni d’insofferenza affinchè  i governi e i Parlamenti siano impegnati a ricercare soluzioni concrete per  garantire la sicurezza energetica,  la protezione dei sistemi naturali, la tutela alimentare e permettere una vita dignitosa alle popolazioni più povere. Noi invece che facciamo?   Ci facciamo la guerra, quella vera  e moltiplichiamo le attività e le spese militari.

Archiviato il  Covid-19, almeno per ora, la scellerata scelta della Russia d’invadere l’Ucraina  non  sembra fermarsi. Ha già causato migliaia di vittime e milioni di profughi.  Accanto al costo umano, si affiancano anche enormi rischi, diretti e indiretti, per l’ambiente.  

Nella precedente analisi ( Leggi “Come la guerra avvelena il Pianeta”) erano delineati gli effetti a lungo termine delle guerre, dall’inquinamento duraturo dell’ambiente  alla perdita di ecosistemi, di terreno coltivabile e mezzi di sostentamento fino ai disastri industriali che ora sono gli scenari che possiamo ipotizzare per un paese come l’Ucraina.

In questo contesto di dolore e di sofferenze inestimabili  il popolo ucraino deve avere quindi tutta la nostra solidarietà e la resistenza armata contro gli invasori è legittima e sacrosanta, ma questa guerra non si  vincerà con le armi.  

E’ lecito di fronte a questa sporca guerra porsi delle domande  evitando  toni esagitati o facendo liste di proscrizione per coloro che esprimono una posizione diversa  dalla  logica amico/nemico?  è lecito chiedersi perché tutti i leader europei hanno calzato l’elmetto e pochissimi, pur sostenendo le ragioni del popolo aggredito, si sono impegnati sul serio a trovare una dignitosa via d’uscita dalla guerra? 

 Perché l’Europa, quella del Manifesto di Ventotene, ha rinunciato al suo compito di portatrice di pace e di solidarietà. Perché in Italia buona parte della sinistra, invece di parteggiare per una vera trattativa, ha deciso di aumentare le spese militari.

E’ lecito chiedersi se negli ultimi dieci anni  il comportamento di Kiev nei confronti delle popolazioni russofona sia stato sempre improntato al rispetto dei diritti e abbia seguito quanto previsto dagli accordi di Minsk?

E’ lecito domandarsi se il tentativo della Nato di creare un avamposto in Ucraina sia stata una scelta saggia o invece sarebbe stato meglio lavorare per garantire una neutralità che desse, nello stesso tempo, garanzie e sicurezza all’occidente e all’oriente? 

Chi oggi denuncia giustamente la logica imperialista russa, deve insieme convenire che in Iraq, in Libia, in Afghanistan, per non parlare dei Kurdi, ha trionfato la logica capitalistica occidentale. La guerra non è un evento casuale, è un sistema. E’ struttura stessa degli Stati.  

Più in generale è lecito chiedersi se la Nato abbia ancora senso o se invece, dopo la caduta del muro di Berlino, non sarebbe stato più lungimirante lavorare, come propose Gorbaciov, ad un nuovo organismo europeo di sicurezza delineato dall’Atto  finale di Helsinki.

Se dopo la fine del comunismo gli USA, convinti di essere diventati gli unici padroni del mondo,  non abbiano peccato di presunzione e abbiano contribuito a fa crescere nel cuore di Mosca, in mezzo alla povertà e alla miseria,  una forte rabbia nazionalistica.

Sono domande semplici che non comportano assolutamente un arruolamento nelle file dell’Armata Rossa come vorrebbero quasi tutti i commentatori politici, quasi tutta la stampa, gran parte dei politici di sinistra e di destra.

In definitiva la domanda a cui vorrei mi fosse data una risposta, senza che si alzino barricate e si puntino missili ideologici, è questa: è lecito, oggi, essere contro la guerra, spendersi per la pace e fare tutto il possibile perché Kiev e Mosca si parlino? E’ lecito non volersi mettere l’elmetto e non voler partecipare al  coro che intona la retorica della guerra come se fosse  l’unico modo per salvare il mondo?

Un conflitto contro il Pianeta

La guerra scatenata da Putin nel cuore dell’Europa, oltre a portare indietro le lancette della  storia, ci sta paurosamente avvicinando alla catastrofe nucleare, rischio sempre più reale, che però non deve farci perdere di vista un rischio ancor più concreto ed attuale, quello della catastrofe climatica.

Questo conflitto evidenzia  drammaticamente sofferenze e nuove povertà e intanto allontana nel tempo le misure per frenare l’aumento della temperatura globale e sovvertire il sistema energetico, lasciando di fatto il campo ai fossili, in una morsa perversa tra carbone, gas, armamenti e andamento del PIL.

Non siamo esposti solo alle difficoltà di approvvigionamento del gas e alla penuria di combustibili. Siamo alla vigilia di un passaggio storico cui stiamo arrivando impreparati ed ad una velocità non prevista dai governanti del Pianeta. 

Gli scienziati dell’ONU (l’Ipcc) ci dicono che entro otto anni è necessario intervenire massicciamente  per  allontanare questo pericolo.  Se la catastrofe nucleare è una  possibilità, quello climatico è una certezza.

Ogni  scontro tra eserciti provoca danni all’uomo e all’ambiente. Parlare dell’impatto ambientale di una guerra non è facile, pensando alle persone  che hanno perso la vita, ai feriti, ai malati, ai rifugiati. Si stima che a livello globale circa il 5% delle emissioni venga da attività militari.     

La guerra in Ucraina infuria su uno dei territori più industrializzati e inquinati al mondo. L’industria pesante sovietica aveva lasciato in eredità una situazione disastrosa per la salute pubblica, ma l’invasione russa, oggi, rischia di danneggiare ulteriormente gli ecosistemi della regione.

L’impatto ecologico del conflitto serve a ricordarci che, anche quando la guerra finirà, le conseguenze delle violenze commesse continueranno a pesare sulle generazioni future.  Il 44% delle aree naturali ucraine sono, ad oggi, interessate dalla guerra.

La guerra inquina, in particolare quando sono colpite le industrie ad alto rischio.  Tra il 2014 e il 2022, il conflitto nel Donbass, la regione più industrializzata dell’Ucraina orientale, ha messo seriamente in pericolo l’ambiente e le condizioni di vita delle comunità. 

L’invasione russa, con il conseguente controllo delle centrali nucleari, gli attacchi alle città, alle centrali elettriche e alle imprese ad alto rischio, aumenta in modo drammatico la possibilità di una catastrofe per l’ambiente e per la salute pubblica.

Il territorio ucraino è una realtà ricca dal punto di vista ambientale e si trova in una zona di transizione tra l’ecosistema della steppa e quello delle foreste vergini. Le truppe russe  sono entrate in quest’area e hanno condotto operazioni militari in più di un terzo  del terreno naturale protetto, danneggiando gli ecosistemi e la biodiversità di quei luoghi, forse in maniera irreversibile.                                                                                                                                                                        

Anche la salute dei fiumi desta preoccupazione. Durante l’estate del 2021 sono stati sversati nel Dnipro oltre 6 mila  tonnellate di fosfati provenienti per lo più dagli scarti industriai, che hanno alimentato la presenza di alghe nel fiume con ripercussioni sulla fauna acquatica.

Quando si parla di guerra in Ucraina e di ambiente ci si riferisce ovviamente alla questione  nucleare. L’Ucraina ha nel proprio territorio 15 reattori nucleari dislocati in quattro aree, ma il più famoso e pericoloso è, paradossalmente, quello inattivo, di Chernobil. Il reattore non si è mai spento dal 1986 ma continua a rilasciare forti radiazioni.

Un problema molto serio è riferito alle materie prime utili per le tecnologie verdi, perché molte provengono dalla Russia e dall’Ucraina. Ad esempio il neon, che è usato per produrre i chip e i circuiti (compresi quelli per gestire le energie rinnovabili). Il modo più economico per ottenerlo è come prodotto di scarto dalla lavorazione dell’acciaio: nelle grandi acciaierie ucraine si produce circa la metà dei 667 milioni di litri di neon usati dall’industria elettronica, e le aziende nel mondo hanno scorte per sei mesi.

Altrettanto a rischio è la fornitura dei metalli per le tecnologie del gruppo del platino (rutenio, rodio, palladio, osmio, iridio e platino). Questi metalli vengono usati sia per le marmitte catalitiche che abbassano le emissioni delle auto, sia per ottenere in modo “verde” i nuovi motori a idrogeno dei bus, degli autocarri pesanti. La Russia  ne è un’importante esportatrice.

Ancora più impattante è il nichel, di cui la Russia è il terzo produttore mondiale: serve per le batterie ricaricabili ed è quindi cruciale per la mobilità elettrica.

Donbass: una regione ricca ma inquinata  

L’Ucraina sta vivendo tutte le conseguenze che possono derivare  dallo scontro tra due eserciti: ordigni inesplosi, bombardamenti, incendi, danni all’ecosistema.  

Il Donbass  è l’esempio più significativo, a partire dal nome.   La parola  Donbass  è l’abbreviazione di  Donetky Bassein, letteralmente “bacino del carbone di Donetsk” zona ricca di carbone, per estrarre il quale è stata costruita una fitta rete di gallerie.

In Ucraina il rischio di contaminazione per l’ambiente era già alto nel 2014, anno dell’inizio della guerra civile nel Donbass.    Questa area, che ospita circa 4.500 imprese minerarie, metallurgiche e chimiche,  era teatro degli scontri tra l’esercito ucraino e le milizie separatiste filo-russe.

La guerra nel Donbass ha portato alla chiusura di molte fabbriche, senza essere messe in sicurezza, con il rischio di danni permanenti all’ambiente. A Mariupol, i residenti sono costretti a sopportare la fuoriuscita di  sostanze nocive, il che fa si che anche comportamenti quotidiani come bere o lavarsi le mani diventano una sfida quotidiana.

Almeno l’8% delle installazioni industriali è precario e poco sicuro, in quanto vengono usati materiale radioattivi che possono provocare  una catastrofe ecologica in slow motion( al rallentatore) in grado di inquinare progressivamente acqua e suolo sulla quale la guerra ha riacceso i suoi riflettori.

Da quando il conflitto è iniziato, le aree delle miniere di carbone abbandonate in Donbass  si stanno riempiendo di sostanze tossiche e talvolta radioattive. Molti rischi ambientali derivano dall’improvvisa interruzione dell’attività estrattiva: l’acqua  usata nel processo estrattivo deve essere pompata in continuazione, se il flusso si arresta, l’acqua tossica riempie i condotti minerari e sale raggiungendo e inquinando il terreno e le sorgenti potabili.

Nella regione ucraina si estraggono anche uranio, titanio, minerali di ferro e manganese. Tutte materie prime per le leghe leggere. Inoltre sul suo territorio si trovano giacimenti di litio fondamentale per la costruzione delle batterie. Inoltre l’Ucraina detiene un altro primato: possiede le cosiddette Terre Rare, un gruppo di 17 elementi chimici che sono il motore delle nuove tecnologie digitali. Tutto ciò per la Russia vale per scatenare una guerra.

L’ Ucraina pur rappresentando, in termini di estensione, il 6% del territorio europeo ne possiede ben il 35% in termini di biodiversità:  con oltre 70 mila specie tra animali e vegetali e tra queste se ne contano quasi 1400 protette.

In questa area si concentra la stragrande maggioranza della ricchezza mineraria dell’Ucraina  tanto da fare della nazione il settimo Paese al mondo per riserva di carbone, circa il 4% del totale. La regione è sede di 200 dei 465 siti di stoccaggio per rifiuti industriali. Sembrano ampi stagni, ma qui vengono versati gli scarti e le sostanze tossiche prodotte dall’industria mineraria.

Secondo alcuni report (Banca Centrale)  solo in questa regione  ci sono 900 miniere di carbone , 40 fabbriche metallurgiche, per un’estensione di circa 60 mila chilometri quadrati, 177 siti chimici ad alto rischio, 113 siti che usano materiali radioattivi, 248 miniere, 1230 chilometri di tubature che trasportano gas, petrolio, ammoniaca,10 miliardi di rifiuti industriali.  Per avere un’idea, il bacino carbonifero della Ruhr in Germania è 13 volte più piccolo. 

 Si ritorna al fossile 

Il conflitto in atto ha fatto esplodere la questione nevralgica della sicurezza energetica e, soprattutto,  quanto sia condizionante dipendere dal gas russo.

In brevissimo tempo, per via della tragedia che si è scatenata nell’EU orientale, il tema della transizione climatica si è dissolto come neve al sole, sostanzialmente è stato cassato da  tutte le agende di governi e parlamenti.  

La guerra in Ucraina è per molti versi è una guerra per l’energia. L’Europa in particolare (anche l’Italia) sta diventando drammaticamente consapevole della propria dipendenza da combustibili fossili russi e come ciò stia alimentando il conflitto. 

Il nostro continente  dipende oggi dalla Russia per circa il 40% del proprio fabbisogno e per circa un quarto delle importazioni di petrolio; interrompere questi flussi sarebbe un’arma a doppio taglio, potrebbe paralizzare economicamente la Russia, con il rischio però di innescare il caos in tutto il continente.

Senza nulla togliere alla tragedia umana portata dalla guerra un atto, sembra profilarsi quella che alcuni studiosi hanno ribattezzato una “guerra climatica” dove la crisi ambientale diventa un fattore rilavante nei nuovi conflitti. E dove le fonti fossili responsabile dei cambiamenti climatici, in primis il gas, diventano una delle tante armi per condizionare l’esito del conflitto. 

La Russia è uno dei principali produttori di combustibile  fossile al mondo. E’ il secondo produttore di gas, il 17% della produzione globale nel 2020, dopo gli USA, e il terzo di petrolio (12% della produzione globale nel 2020 ), dopo gli Usa e l’Arabia Saudita. 

Mentre l’EU dipende fortemente dalle forniture del carburante russo, la Russia a sua volta dipende dai ricavi delle vendite di combustibili fossili, che rappresentano oltre i due quinti delle entrate del governo  di Mosca. 

L’orientamento  consolidato dell’Europa  è quello di “interrompere” qualsiasi rapporto col fornitore russo, cercando altri fornitori (Algeria, Tunisia), la maggior parte dei quali però è più o meno affidabile come Putin.  

Al contrario l’Europa potrebbe ridurre rapidamente la propria dipendenza dal gas “investendo” nell’efficienza energetica e nelle energie rinnovabili  piuttosto che diversificare i fornitori.

Quando il mondo ha cominciato a riemergere dalla  pandemia, a metà del 2021, con la ripresa delle attività produttive la domanda di energia si è impennata.        

L’Europa, che  ha guidato gli sforzi globali per abbandonare il carbone, si è trovata di fronte ad un problema di approvvigionamento elettrico senza precedenti, insieme alla carenza di gas naturale. La convergenza di questi due elementi ha provocato grandi deficienze della rete elettrica e ha portato alle stelle i prezzi del gas in tutto il  mondo.

Il carbone è tornato in auge in quanto opzione meno costosa  e nell’UE che aveva uno degli obiettivi climatici più ambiziosi al mondo, la fine dell’era del carbone, il suo utilizzo nel 2021 è cresciuto del 9 %. Va tenuto conto che questo incremento è in rapporto al crollo dei consumi che si è registrato nel 2020. 

La massima espressione del “partito del carbone” è la Polonia i cui governanti gioiscono di poter decidere, di tenere aperte le miniere di carbone fino al 2049.  Dal canto loro Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania hanno messo da parte ogni progetto di transizione e ricominciano ad utilizzare carbone .

Naturalmente è in netta ripresa anche il “partito del nucleare” tanto che, ad esempio, sia il Belgio che la Germania stanno pensando di tornare sui loro passi. 

La prospettiva è sconfortante. Infatti la sicurezza degli impianti nucleari, più volte affermata, di fatto non esiste perché gli impianti di “nuova generazione” sono perlopiù uguali a quelli tradizionali e la loro realizzazione richiederebbe molti anni.

Il dibattito che si è aperto su questo terreno è orientato a dare impulso alla produzione autoctona dei fossili che potrebbe permettere di calmierare i prezzi delle bollette che i cittadini pagano. Tale orientamento deve essere ridimensionato in quanto l’andamento dei prezzi nasce dal gioco finanziario che stanno facendo i grandi operatori del gas e del petrolio e che difficilmente può essere controllato.

Per quanto riguarda l’Italia si fa strada la convinzione  ( meglio l’illusione) che la via da seguire sia quella di rendersi maggiormente autosufficiente tramite l’estrazione interna, accompagnata dell’incremento dell’importazione di gas naturale liquefatto e dalla  costruzione di nuovi rigassificatori.  

La guerra del  pane

L’aumento del prezzo dei cereali solo in parte è dovuta alla guerra e al blocco in Ucraina.  A causarlo sono le scommesse gestite dalla finanza e i rincari dell’energia.  La penuria riguarda l’Africa, Medio e lontano Oriente, non l’Italia e l’UE. Ma lo spettro di una crisi alimentare rischia di aprire la strada in Europa all’agricoltura intensiva e agli Ogm.

Le cronache dal fronte ucraino si sono arricchite in queste settimane di informazioni su un’altra guerra, quella del grano, che minaccerebbe la sicurezza alimentare di gran parte del Pianeta, terrebbe in scacco la produzione di pane e pasta, starebbe causando vertiginosi aumenti dei prezzi di materie prime e prodotti trasformati.

Normalmente si dice, dandolo per scontato, che l’Ucraina sia il granaio dell’Europa. Non è così. Era vero agli inizi del Novecento, e ancora oggi è uno dei Paesi esportatori al mondo di grano; il quinto, dopo la Russia, Stati Uniti, Canada e Francia,     Insieme Russia e Ucraina sono responsabili di quasi un terzo delle esportazioni complessive di grano.

Per questo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha subito  bloccato i porti sul mar Nero, ha già fatto aumentare il prezzo del grano e causerà grossi problemi ai paesi che fanno più affidamento sulle importazioni dall’Europa orientale. Sono perlopiù sono I paesi poveri dell’Africa e del Medio Oriente 

C’è da dire che Usa, Canada e Francia sono nelle condizioni di supplire con facilità alle carenze procurate dal blocco della  materia prima in Ucraina.

Nonostante questa situazione che potrebbe rendere meno pesanti gli effetti del blocco  del grano nei porti ucraini, i prezzi del grano tenero sono aumentati del 70% rispetto al 2021 e quelli del grano duro dell’85%, con effetti che si fanno sentire  sul prezzo di pane e pasta.  Qual è allora il problema?

La guerra è solo l’ultimo elemento di destabilizzazione di una crisi del commercio internazionale innescata dalla pandemia. Da due anni il mondo assiste ad un aumento preoccupante dei prezzi dei prodotti alimentari. L’effetto rimbalzo è stato causato da una ripresa della domanda dopo il crollo del Pil globale nel 2020.

Ma l’aumento dei prezzi “sostanzialmente dipende dalla speculazione finanziaria che è iniziata ben prima della guerra. Il mercato dei cereali, come quello dell’energia , vive di una aspettativa dell’andamento dei prezzi dei prodotti alimentari, seguendo la logica delle scommesse.  Se c’è un conflitto e si paventano restrizioni alla produzione, le scommesse sono al rialzo.

Questi contratti sono i cosiddetti derivati: si compra a 30 e si scommette di vendere a 40.   Sono contratti regolati da soggetti che non hanno nulla a che fare con il grano: banche di investimento, fondi.       

Non è il grande panificatore europeo o americano a fare i prezzi, Sono soggetti fuori dal circuito della produzione  che usano questi strumenti finanziari a titolo speculativo, grazie anche  alla scelta fatta dall’Organizzazione mondiale del commercio di liberalizzare il settore, consentendo l’utilizzo di strumenti finanziari anche per il grano.

Secondo l’Agenzia dell’Onu, World Food Programme, in Africa Orientale dove il grano e i prodotti a base di grano rappresentano un terzo del consumo di cereali, il 90% delle importazioni proviene da Mosca e Kiev. Per la Fao, Kazakhistan, Mongolia, Armenia, Georgia dipendono quasi al 100% dal grano russo. 

Mentre hanno una dipendenza tra il 50 e 100% la Bielorussia, la Turchia, la Finlandia il Libano, Pakistan e molti paesi africani. L’Egitto comprava dall’Ucraina il 22% del proprio fabbisogno, la Tunisia il 49%, la Libia il 48%, la Somalia il 60%, il Senegal il 20% 

E’ doveroso sottolineare che nonostante le sanzioni, Mosca continua ad esportare, anzi ha aumentato le esportazioni, come per il gas, e lo fa  prezzi molto elevati; in questo modo si finanzia anche il conflitto.  

L’aumento dei costi e la carenza di grano potrebbero non solo aggravare una situazione di miseria, ma provocare conseguenze sociali imprevedibili in paesi a democrazia fragile come la Libia, il Bangladesh, lo Yemen. Il prezzo del pane nei Paesi africani è aumentato del 60% con la maggioranza della popolazione che non può sostenere un costo del genere.  Nel tempo però potrebbe contagiare anche i Paesi del mondo occidentale.

Il cibo è diventato un elemento strategico in questa fase del conflitto; un capitolo determinante della partita geopolitica in corso dipende   proprio da come verranno definiti gli equilibri legati al commercio delle materie prime alimentari.

L’aumento dei prezzi dei prodotti alimentati e la paura di restare senza scorte a causa del conflitto russo-ucraino ha spinto per  lo più alcuni Paesi asiatici, ad iniziare dall’India, a sospendere le esportazioni allo scopo di proteggere i consumatori nazionali.  La paura è quella di n nuovo aumento incontrollato dell’inflazione e il pericolo che questa forma di protezionismo possa generare un pericoloso cortocircuito. 

Ma se ci scostiamo dalle questioni riferite alla fame, il terreno contiguo è quello dell’acqua. Il Climate Change è all’origine sia dei sempre più frequenti disastri naturali, il 90 dei quali ha a che fare con l’acqua, sia del continuo aumento dei livelli di pressione sulle risorse idriche, a causa delle quali più di 2 miliardi di persone vivono in paesi che sperimentano condizioni di stress in forma acuta  Negli anni più recenti il numero dei conflitti legati al controllo o comunque all’uso delle risorse idriche è praticamente triplicato: da 94 nel 2000-2009, a 263 tra il 2010 e il 2018.  

Il ruolo ambiguo dell’Europa

L’Europa sta diventando drammaticamente consapevole della propria dipendenza dai combustibili fossili russi: l’UE , insieme a Regno Unito,  acquista ogni giorno per centinaia di milioni di dollari  petrolio e gas  dalla Russia e che sono quei tanti milioni che finanziano il regime russo.

Del resto la posizione della Commissione Europea  è stata ed è molto ambigua perchè se da un lato ha presentato un piano per rendere l’Europa indipendente  dai fossili russi, dando l’indicazione di accelerare la transizione energetica ed ambientale dall’altro, già prima che scoppiasse la guerra, aveva tentato di inserire il nucleare e il gas nella prima stesura della Tassonomia delle tecnologie sostenibili green.

La prospettiva è a dir poco sconfortante. La sicurezza degli impianti nucleari più volte affermata di fatto non esiste: gli impianti di nuova generazione non differiscono molto da quelli tradizionali, ma sicurezza a parte la loro realizzazione richiederebbe molti anni.

La stessa ambiguità vale per il governo italiano quando il Presidente Draghi in Parlamento ha affermato che per il superamento della crisi si devono rendere più semplificate le procedure per l’autorizzazione dell’installazione degli impianti per le rinnovabili,  ma nel contempo annunciava  la riapertura delle centrali a carbone.

Il nostro governo, ma è tutta l’Europa, non coglie l’eccezionalità del momento: mentre da una parte  annuncia il riarmo dall’altra guarda indietro e, anziché accelerare il passaggio alle rinnovabili ed a un modello decentrato di produzione e consumo, va alla ricerca di nuovi fornitori da sostenere con ingenti investimenti infrastrutturali che, certamente, non ci permetteranno la fuoriuscita dal fossile.

Improvvisamente il carbone è tornato in auge anche  perché  è l’opzione più vantaggiosa, al costo di circa 15 dollari per milione di Btu ( unità di misura termica inglese) secondo un rapporto della Bank of America del 1 aprile. Questo va messo a confronto con i circa 25 dollari per il petrolio greggio e il prezzo di 35 dollari per il gas naturale.

Nell’UE che si era dato degli obbiettivi  climatici molto ambiziosi, l’utilizzo del carbone è  aumentato del 12% nel 2021 mentre negli Usa l’incremento è stato del 17%

Nonostante  pochi mesi fa i rappresentanti di governo presenti a Glasgow avessero  assunto l’impegno  entro il 2060  di “ consegnare il carbone  alla storia ”, oggi, anche se non in modo esplicito, questo obiettivo si allontana nel tempo e la dipendenza dai fossili è più che mai forte.

Il 2021 è stato l’anno in cui il mondo ha generato più elettricità da carbone, con un incremento del 9% rispetto al 2020. Per il 2022 si stima  che il consumo totale di carbone, per generare energia, per produrre acciaio e per altri usi industriali, aumenterà quasi del 2% ovvero la quantità  record di circa 8 miliardi di tonnellate. 

I governi europei sembrano aver frenato sulle misure da adottare per affrontare la crisi climatica, a favore di una corsa al riarmo con armi che producono quantità smisurate di gas serra, per non parlare delle armi chimiche e biologiche, pensate per avvelenare sempre più popoli e territori.  E’ importante sottolineare che uno studio del Parlamento europeo aveva già evidenziato l’inefficienza della soluzione militare a garanzia della difesa.

Se deve essere affrontato il tema dell’invio di armamenti sempre più sofisticati è lecito porre un quesito. Che senso ha mandare armi sempre più potenti ai combattenti in Ucraina  e poi pagare a Putin gas, petrolio, carbone, fertilizzanti, grano, continuando in questo modo a finanziare la guerra di aggressione?

La cosa che più colpisce è come tutto il mondo occidentale  scopra solo oggi la dipendenza dalla  Russia per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico e nel contempo  non abbia previsto interventi, dopo la pandemia, affinché la ripresa economica non producesse effetti inflattivi non controllati. 

Per qualcuno la guerra è un buon affare

L’invasione russa dell’Ucraina, iniziata nel febbraio 2022,  come abbiamo visto sta causando pesanti sofferenze umane  che,  con il protrarsi del conflitto,  stanno aggravando il problema alimentare globale e peggiorando la sicurezza energetica.  

La scelta di Putin apparentemente non comprensibile  segna una svolta drammatica per lo stesso sistema internazionale e in particolare per lo sviluppo politico ed economico dell’UE. Di fronte alle tante vittime che questa guerra porta con sè e la crescente minaccia di guerra termonucleare, l’obiettivo immediato deve essere quello per lo meno di ridurre le tensioni facendo  tutti un passo indietro per arrestare l’escalation.

E’ opportuno sottolineare che nel giro di poche settimane lo scenario di guerra si è modificato: da un’azione di contenimento e di sostegno alla difesa dell’Ucraina  si è passati, fornendo armi sempre più  potenti, ad una prospettiva di un’offensiva contro la Russia in terra russa. 

Le  pesanti sanzioni economiche imposte alla Russia, così come il sostegno militare degli USA e  dell’UE nei  confronti dell’Ucraina, se da una parte potrebbero essere giustificate dalla evidente violazione del diritto internazionale da parte della  Russia, dall’altra potrebbero alimentare un’escalation della guerra e accrescere il rischio di un conflitto che coinvolga direttamente i paesi della Nato.

Sarebbe necessario, per evitare questo scenario, riconsiderare il peso delle sanzioni, ma soprattutto intensificare gli sforzi diplomatici.    Sul piano interno i Paesi dell’UE hanno risposto   con programmi di spesa per la difesa e per il riarmo. Di contro anche la Russia ha esteso le sue mire imperiali a tutta l’Ucraina.

Per come si sta evolvendo il conflitto è evidente  che la Nato sta vivendo una fase di rinascita e la posizione di leadership degli Stati Uniti si è rafforzata. Questo ha favorito gli interessi geopolitici statunitensi condizionando quelli dell’EU.

C’è un dato molto interessante che è emerso nel corso del conflitto in Ucraina: i titoli del debito pubblico americano con scadenze brevi garantiscono un rendimento più alto di quelli a lungo termine. Si tratta di una anomalia perché solitamente i titoli a breve rendono di meno di quelli a lungo termine. Negli ultimi 60 anni quando si è verificata questa situazione l’America ha vissuto una pesante fase recessiva.

Questo pessimo segnale dipende  da una fiammata inflazionistica legata ai prezzi dell’energia. In questa situazione l’economia americana, nell’immediato,  può scongiurare la recessione se riuscirà a sfruttare l’inflazione a proprio vantaggio.

Tutto ciò si potrà realizzare solo se gli americani saranno capaci di esportare energia a prezzi altissimi.   In questa direzione va l’accordo tra il presidente Biden e la Commissione europea: un maggior afflusso di gas americano in Europa.  Questo era il risultato atteso dalle compagnie energetiche americane che condizionano in modo pesante le scelte che di volta in volta fanno i governanti.  

Più in generale  gli Usa  dovranno far lievitare i prezzi delle proprie esportazioni: cereali, armi, meccanica, con quotazioni portate alle stelle. In questo modo gli Usa conterranno l’inflazione interna, esportandola in giro per il modo, in primis in Europa.  Tutto ciò si potrà realizzare solo se la guerra continua a lungo.

Di conseguenza il Presidente Biden ha bisogno come il pane di questo conflitto sia per recupere consensi all’interno sia per logorare la Russia in modo che la Cina abbia un partener indebolito.     

Infatti Cina e Russia hanno intrapreso la strada dell’espansionismo economico  e l’asse Mosca-Pechino prende sempre più corpo.  Pechino  ha il primato mondiale dell’industria manifatturiera e Mosca primeggia nell’esportazioni di materie prime (gas e petrolio).  Solo in Europa nel 2021 ha provveduto al 45% del fabbisogno di gas e al 25,7% di petrolio.  

Inoltre la Russia dispone anche di vaste riserve di ferro, oltre che di oro, nickel e alluminio. In termini di risorse minerarie  l’Ucraina non ha simili in Europa e nel mondo, senza contare le grandi riserve minerarie di ferro, di uranio e  zirconio, oltre alle pietre preziose e ai materiali da costruzione. 

Al di la delle diverse motivazioni date a questo conflitto, il motivo vero di Mosca è quello di diventare il primo fornitore di materie prime della Cina: da un lato quest’ultimo è il Paese più esteso al mondo, dall’altro è la prima industria manifatturiera con un potenziale esplosivo di esportazioni.

L’Ucraina per questo serve alla Russia, anche se l’obiettivo vero di Putin è “lo scudo ucraino”: cioè quella terra compresa tra i fiumi Nistro e Bug che si estende fino alle rive del Mar d’Azov , 250 mila kilometri quadrati  nel sud del Donbas.

In questo scenario Putin ha maturato il progetto di riprendersi almeno una parte dell’Ucraina, quella più ricca. Ma per farlo, la guerra deve continuare!      

L’Europa potrebbe cambiare il corso della storia ma…

Da quanto detto si desume che la posizione dell’UE (quindi anche dell’Italia) è difficile perché  i costi economici e sociali della guerra ricadranno essenzialmente su Bruxelles, in quanto le relazioni economiche con la Russia e quindi l’accesso al mercato russo saranno fortemente ridimensionati. 

La capacità della politica in questa fase è quella di agire con “competenza”. L’Europa, invece di calzare l’elmetto, dovrebbe avere come priorità massima quella di favorire una soluzione politica durevole che contempli i legittimi  interessi dell’Ucraina rispetto alla sua sovranità territoriale sia le preoccupazioni della Russia dal punto di vista della sicurezza nazionale.

Di conseguenza a quale Europa vogliamo guardare? Quella che sta a guardia del confine di una nuova cortina di ferro? Oppure a quella che sigla gli accordi di pace e di sicurezza fatti a Helsinki ? 

Più in generale, l’Europa dovrebbe ripensare il suo orientamento strategico e resistere alla tentazione del riarmo e della militarizzazione.  In un contesto globale caratterizzato da una miriade di crisi  territoriali e da una drammatica crisi climatica, l’UE  e la  comunità internazionale dovrebbero  concentrare i loro capitali politici ed economici   sulla promozione di un’efficace cooperazione internazionale e sulla costruzione della pace.

Abbiamo fatto – e se si quando e dove-  una scelta per una Comunità di Difesa Europea, sul modello di quello abortito negli anni cinquanta? Ma un esercito europeo è impossibile da realizzarsi senza un’unione politica reale!

Per poter essere un promotore credibile, l’Europa dovrebbe avere la forza di accelerare la trasformazione socio-ecologica dell’economia europea, abbandonando i dogmi politici neoliberali degli ultimi trent’anni, volti a promuovere le privatizzazioni, ad esaltare un mercato del lavoro sempre più flessibile,  alla finanziarizzazione dell’economia e ad un dannoso neomercantilismo basato sulle esportazioni.   

La precondizione per dare risposte sensate a questi interrogativi è evidentemente tutta politica e non passa per semplificazioni propagandistiche. Una svolta europeista generica non ha senso o peggio genera contraddizioni insanabili. E ’necessario a questo punto che Kiev e l’UE escogitino una via d’uscita dal conflitto, accettabile da Putin, perché l’alternativa è una guerra nella quale la distruzione del paese e un’enorme numero di vittime sarebbe inevitabile. 

Ci troviamo ad un punto di svolta cruciale, le decisioni di  oggi determineranno gli sviluppi futuri, nel bene e nel male.   Scelte politiche sbagliate comporteranno il rischio di un mondo post pandemico in cui sarà di fatto impossibile raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile entro il 2030; un mondo in cui le molteplici crisi di oggi – alimentare, sociale, ecologica,, migratoria- saranno ulteriormente aggravate da crescenti minacce militari. 

Quel che serve è  un nuovo modello politico in grado di affrontare, con la necessaria sensibilità e competenza, la crisi ambientale, sociale ed economica, in una parola la crisi di sopravvivenza del nostro Pianeta.

La guerra è una tragica semplificazione per un periodo sempre troppo lungo per la sua durata, ma infinitamente breve per il corso della storia: è soprattutto la dimostrazione che in politica imboccare scorciatoie, a qualsiasi livello, è un errore fatale. 

Informazioni su Walter Bottoni

Nato il primo settembre 1954 a Monte San Giovanni Campano, ha lavorato al Monte dei Paschi. Dal 2001 al 2014 è stato amministratore dei Fondi pensione del personale. Successivamente approda nel cda del Fondo Cometa dei metalmeccanici dove resta fino 2016. Attualmente collabora con la Società di Rating di sostenibilità Standard Ethics.
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