di Giuseppe Amari *
Si ha l’impressione che, in attesa dei fondi europei, ognuno continui con i medesimi comportamenti in una sorta di inerzia. Anche con la illusoria fiducia che, una volta disponibili quei fondi, tutto si risolva automaticamente come prima e meglio di prima; una riproposizione della provvidenziale «mano invisibile», anche se questa volta ha un nome.
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Purtroppo non è così. E non è così nemmeno per le necessarie correzioni delle nefaste politiche europee dell’austerità deflazionistica, sulle quali c’è una recente resipiscenza che, ci si augura, non sia temporanea. E perché non lo sia occorrerà una dura battaglia.
Gli imprenditori hanno diritto a richiedere giusti ristori per le forzate chiusure e riduzione dell’attività, ma non potranno pensare domani di ripetere il solito modello della evasione ed elusione fiscale, dell’uso dei paradisi fiscali, della lesina delle retribuzioni, dei mancati investimenti in innovazione e formazione, della gestione autoritaria nelle relazioni sindacali. Inaccettabile prima, intollerabile ora e dopo quando si tratterà di rimborsare il notevole indebitamento pubblico, che non potrà gravare esclusivamente su chi le tasse le ha sempre pagate.
Il sindacato, da parte sua, ha aperto la stagione dei rinnovi contrattuali con le controparti pubbliche e private in alcuni casi fermi da anni, in una situazione di oggettiva grande difficoltà, e che vede da anni la mortificazione e il declino della distribuzione del reddito a danno del lavoro dipendente. Senza dimenticare il montante processo di precarizazione e l’esistenza di ampie e crescenti fasce di lavoratori senza coperture contrattuali.
Su tutto incombe il problema della disoccupazione che esploderà quando sarà allentato o eliminato il divieto dei licenziamenti. Un problema che va affrontato oggi e non domani con le adeguate misure e il concorso solidale di tutti compreso quello all’interno dello stesso mondo del lavoro. Concorso solidale, quest’ultimo, che è il carattere distintivo del sindacalismo confederale.
La sua tenuta confederale infatti è anche la migliore garanzia della tenuta sociale e unitaria del Paese.
Insieme alla inaccettabile e crescente divaricazione di reddito e di ricchezza, aggravata dall’attuale crisi, ne avanza un’altra non meno grave tra chi si trova in situazione di relativa sicurezza anche modesta e chi invece vive in condizioni di grave precarietà e incertezza, di povertà anche assoluta. Una divaricazione che passa trasversalmente tra diverse componenti sociali: imprenditoriali, professionali, del lavoro dipendente. E qui deve soccorrere il necessario richiamo alla solidarietà sociale. Chi ha più dia di più, ma anche chi dà avendo poco fornisce un grande esempio civile e morale.
Nel settore privato oggi e non domani il conflitto distributivo non può privilegiare la ripartizione delle risorse tra dividendi alla proprietà e retribuzioni al management da una parte e aumenti salariali dall’altra, ma deve convergere al mantenimento se non all’aumento dell’occupazione. Ciò significa che tutte le risorse disponibili interne ed esterne devono essere impiegate in innovazione e formazione in una logica gestionale di medio periodo. La stessa contrattazione deve ottenere convincenti «piani di impresa» forniti di adeguate risorse finanziarie, tecniche ed umane.
Nel settore pubblico, per un ragionamento analogo, si deve privilegiare oggi e non domani un grande piano di assunzioni, anche a tempo parziale per ragioni di urgenza. D’altronde è nota la carenza di organici in tante parti del pubblico impiego. A tempo debito si dovrà certamente procedere alla migliore ripartizione e al più razionale impiego e finalmente anche alla sua dignitosa retribuzione.
Mai come oggi, e più in generale, va recuperato il concetto, caro a Federico Caffè, dello «Stato occupatore di ultima istanza».
In tempi di scarsità di risorse si è keynesiani intervenendo anche sul lato dell’offerta e non solo su quello della domanda aggregata. E’ la tesi di un keynesiano doc e premio Nobel Lawrence Klein.
In sostanza occorre intervenire, insieme alla domanda anche selettiva, sui vari settori della produzione di beni e servizi per correggere insufficienze e strozzature, comprese quella sul mercato del lavoro. A proposito che fine hanno fatto i Centri per l’impiego?
Abbiamo riscontrato, ancora una volta in questa fase, la grave e ben nota carenza nel funzionamento dell’apparato amministrativo a tutti i livelli centrali e periferici e di settori importanti dell’economia e della società come le banche, i trasporti soprattutto urbani, le banche, la sanità.
Oltre alla lezione keynesiana va recuperata quella del New Deal; ma quella vera, poco conosciuta ed apprezzata in Italia.
Per Roosevelt e i «new dealers» il New Deal era soprattutto riforme civili e sociali, prima che politiche di ripresa economica.
Lo rende bene la seguente frase del presidente americano:
«Progrediremo realmente? Il vero problema è se dobbiamo permettere che le nostre difficoltà economiche e la nostra imperfetta organizzazione frustrino il sano e sostanziale sviluppo del nostro governo civile».
Il suo programma, tradotto nei numerosi provvedimenti di legge («Acts») dei primi frenetici 300 giorni, affrontava i problemi della riforma dello Stato e del Governo, i problemi della tassazione, della riforma agraria, della sanità, delle ferrovie e dei trasporti, della energia, della finanza, dei monopoli e del loro strapotere, della riforma giudiziaria e delle carceri denunciando le condizioni disumane soprattutto di giovani condannati a pene severissime, delle condizioni e degli orari di lavoro compresi quelle donne e dei fanciulli.
Come ha potuto condurre questa battaglia civile e democratica contro le forti concentrazioni di potere che sovrastavano i singoli Stati? Rafforzando il Governo federale e alleandosi con il movimento sindacale che rafforzò con provvedimenti di legge.
Purtroppo la sua lezione non è stata recepita perché da decenni alle crisi e recessioni fa seguito una regressione sul piano civile e sociale.
Come hanno insegnato Bobbio e Ferrajoli, Stato sociale e Stato di diritto sono strettamente connessi. All’impoverimento del primo segue inevitabilmente quello del secondo.
Il welfare universale, e non quello aziendale, unica risposta razionale in un mondo pervaso dall’incertezza, è anche la principale manifestazione della solidarietà sociale e garanzia della tenuta sociale e unitaria del Paese.
E lo vediamo, al contrario, dalla moltiplicazione in Europa e nel mondo di spinte autoritarie, demagogiche e populiste, sovraniste e, sul piano interno centrifughe, il risorgere di movimenti e partiti di estrema destra.
Se è principale compito della politica affrontare quelle riforme civili e sociali oltre che economiche, non meno importante è il ruolo del sindacato perché il funzionamento di quei settori decisivi non può avvenire senza il concorso partecipato e attivo, anche propositivo del mondo del lavoro. Anche per quella politica dell’offerta congiunta alla domanda di cui parlava Lawrence Klein.
Un funzionamento che non può prescindere da una estensione della democrazia nel mondo del lavoro e nelle aziende, che va oltre quella dimensione se è valida la considerazione di Guido Calogero che «la più solida democrazia nasce dalla molteplicità delle democrazie…» (aziendale, economica, sociale, politica): le democrazie come le libertà sono tra di loro solidali.
In altri tempi il movimento sindacale, in assenza o debole presenza politica, ha affrontato il problema delle riforme e dello stesso funzionamento di settori economici pubblici e privati.
E mai come oggi tale ruolo sarebbe importante anche con il coinvolgimento esterno delle migliori risorse intellettuali e tecniche.
Per tornare alla politica e alla lezione di Roosevelt, è necessario riconquistare la sua piena indipendenza e assumere la preminenza sugli interessi costituiti, siano economici, finanziari e oggi della informazione.
Va riconquistata la capacità programmatoria e rivalutato l’intervento pubblico, insieme ovviamente alla correlata piena valorizzazione del lavoro pubblico.
E non sembri retorico il richiamo all’art. 54 della Costituzione che vale la pena riproporlo per i tanti veri e finti immemori, ma sempre pronti all’ipocrito omaggio:
«Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore».
Federico Caffè, a metà degli anni settanta scriveva:
«Si va alla ricerca nominalistica di un ‘nuovo modello di sviluppo’, ma esso .nelle sue ispirazioni ideali, si trova nella prima parte della Costituzione, nei suoi aspetti tecnici nei lavori della Commissione economica per la Costituente».
Ispirazione ideale che non vale solo per gli aspetti economici, ma investe l’intera vita civile sociale e democratica del Paese.
Ma come valutare una classe politica che mantiene nel suo seno ed anzi volentieri collabora e intriga con coloro che offendono palesemente quell’articolo, compresi quelli che, condannati per evasione fiscale, il reato peggiore di un politico o peggio di un governante, hanno tradito il Paese e i suoi concittadini?
Quale lezione civile e morale viene fornita ai giovani e quale e quanto degrado etico collettivo ne consegue?
Gustavo Zagrebelski commentando l’art. 54 affermava:
«[…] Se ci pensiamo è la norma fondamentale, sulla quale tutto si regge (o tutto crolla) … La prima riforma di cui abbiamo bisogno è il rinnovamento civile. La Costituzione senza di ciò, è solo un falso obiettivo».
Quanto poco «tutto si regge» lo stiamo amaramente constatando.
• * Sindacalista. Fondazione Giacomo Matteotti.
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(giusamari45@gmail.com
NOTE:
i Cfr. Lawrence Klein, La teoria economica dell’offerta e della domanda, Giuffrè, Milano 1983. Traduzione e prefazione di Federico Caffè.
ii In G. Amari, M.P. Del Rossi (cura), Franklin D. Roosevelt, Guardare al futuro. La politica conto l’inerzia della crisi, Castelvecchi, Roma. Prefazione di James Galbraith, p. 89.
iii Ivi. I problemi affrontati sono articolati in altrettanti capitoli del volume. I provvedimenti legislativi si trovano elencati in Appendice.
iv Se ne argomenta bene in AA.VV., La grande regressione. Quindici intellettuali di tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017. Nella introduzione di Geiselberger si legge: «[…] Siamo testimoni di un declino rispetto a un determinato livello di “civilizzazione”, che credevamo irreversibile… La grande regressione che oggi si dispiega davanti ai nostri occhi sembra dunque essere il risultato di un’interazione tra i rischi della globalizzazione e quelli del neoliberismo. I problemi generati dalla incapacità della politica di far fronte alle interdipendenze globali trovano infatti delle società impreparate ad affrontarli sul piano delle istituzioni come su quello culturale [corsivo mio]».
v Norberto Bobbio, “Stato liberale e ‘Stato di benessere’. Alcune critiche”; Luigi Ferrajoli, “La crisi dello Stato di diritto nella crisi dello Stato sociale”. Ambedue in Ester Fano et al. (a cura), Trasformazioni e crisi del Welfare State, De Donato, Bari, 1983, rispettivamente alle pp. 373-376 e alle pp. 419-429.
vi GuidoCalogero,Difesadelliberalsocialismo,Conalcunidocumentiinrditi,Atlantica,Roma1945,p.60.
vii F. Caffè, “Storia e impegno civile nell’opera di Giovanni Demaria”, In Tullio Biagiotti, Giampiero Franco (eds), Pioneering Economics: International Essays in Honour of Giovanni Demaria, Cedam, Pavia 1978, pp.
184-189.
viii Gustavo Zagrebelsky, “Sessant’anni della Costituzione”, Introduzione al testo costituzionale allegato al
cofanetto con n. 2 DVD: La nascita della Costituzione italiana. Le idee, i protagonisti, la storia, del Gruppo Editoriale L’Espresso di Rai Trade, per i sessanta anni della Costituzione.