Lundini o Landini: questo è il dilemma

 

 

di Domenico Moccia

Ieri mattina alle  nove apprendevo che il Segretario Generale della CGIL avrebbe tenuto  una conferenza stampa per “ Rispondere agli attacchi politici ricevuti”.

Non avendo potuto seguire la diretta per motivi personali, alle diciotto ho cercato su Google per avere notizie. Ho cliccato “ conferenza stampa di Landini “ e mi è apparso testualmente : ” Forse cercavi conferenza stampa Lundini “, confesso che il personaggio in questione mi era del tutto ignoto, ma ho appreso da Google trattarsi di un comico. Ho fatto scorrere le pagine successive, ma del confronto di Landini con i giornalisti non c’era traccia.

Abbastanza meravigliato, mi sono concentrato sui telegiornali della sera sia della RAI che della 7, silenzio assoluto, evento mai menzionato, nemmeno solo come titolo.

Stamani ho sfogliato i quotidiani ai quali sono abbonato, Corriere della Sera, Repubblica, La Stampa ed ho appreso, tra le altre cose, della morte di un’anatra uccisa da dei giovani teppisti e di un cane che ama salire sul tetto e al quale la proprietaria ha appeso al collo un cartello per segnalare  che non era in pericolo.

Sull’ evento conferenza stampa nulla, solo una  tombale coltre di silenzio.

Sono così emerse dal profondo della mia memoria quanto scrisse Antonio Melloni, meglio noto come Fortebraccio, politico, giornalista, sarcastico polemista,  in un suo corsivo sull’Unità :” Si è aperta la porta e non è entrato nessuno, era Cariglia”.

Temo che queste parole   si attaglino perfettamente  a quanto accaduto e indichino con chiarezza solare lo stato di salute della CGIL.

La marginalità, l’evanescenza, lo dimensione confusionale sono  testimoniati da tempo.

Decidere di dare luogo ad una consultazione straordinaria e certificata ( da Chi? ) della durata di due mesi per chiedere l’impegno ( chiedere? ) alla mobilitazione   fino allo sciopero generale; dichiarare la promulgazione di un referendum per l’abolizione del jobs act sapendo che si sarebbe potuto svolgere solo nel 2025 considerato che le firme avrebbero dovuto essere raccolte entro settembre ; chiedere ripetutamente di essere ricevuto dalla presidente Meloni senza ricevere alcuna risposta; fuggire dalle contestazioni degli studenti attendati di Milano; allontanarsi in silenzio e in fretta da giornalisti che pongono domande sono i sintomi oggettivi di una grave crisi di identità e di consenso, oltre che di smarrimento.

Occorrerebbe un nuovo Congresso, non la kermesse alla quale abbiamo assistito pochi mesi fa, l’ elezione di un gruppo dirigente che sia autenticamente tale, ovvero plurale, capace di una dialettica democratica, in grado di elaborare proposte finalizzate al recupero della centralità sociale del lavoro e che ridiano alla classe lavoratrice il primato politico che ha detenuto per decenni quando il capitale non godeva dello status privilegiato di cui gode oggi. 

Sarà possibile? Forse sì, se Landini evocasse dal limbo della sua memoria i contenuti del documento congressuale LA CGIL CHE VOGLIAMO di cui fu agguerrito sostenitore, ma in questo caso l’ottimismo della volontà soccombe inesorabilmente  al pessimismo della ragione. 

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Ivrea: il binario dimenticato

Abbiamo letto in questi giorni che la Procura di Ivrea ha aperto un fascicolo d’indagine sulla strage di operai avvenuta a Brandizzo.

Sono emerse gravi violazioni delle procedure di sicurezza e  profili di responsabilità precisi – l’incidente poteva essere evitato, se solo fossero state rispettate le procedure minime  di salvaguardia.

Non solo diciamo noi. 

Abbiamo disperso in questi anni la cultura del lavoro che proprio ad Ivrea Adriano Olivetti aveva seminato già negli anni cinquanta dello scorso secolo.

Nel suo discorso  ai lavoratori di Ivrea alla vigilia di Natale, 24 dicembre 1955, al «Salone dei 2000» ci tornano alla memoria quelle parole.

Talvolta, quando sosto brevemente la sera e dai miei uffici vedo le finestre illuminate degli operai che fanno il doppio turno alle tornerie automatiche, mi vien voglia di sostare, di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza a quei lavoratori attaccati a
quelle macchine. Tutta la mia vita e la mia opera testimoniano anche – io lo spero – la fedeltà a un ammonimento severo che mio Padre (Camillo Olivetti) quando incominciai il mio lavoro ebbe a farmi: «ricordati – mi disse – che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: tu devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano da subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro. Mi illudo perciò di non avere ignorato le vostre aspirazioni, i vostri desideri, i vostri bisogni. Poiché i vostri dolori, le vostre sofferenze, e i vostri timori e le vostre speranze sono da sempre le mie; per anni nella preghiera di ogni giorno non ho mai di certo pensato al mio pane quotidiano ma potevo rivolgere un pensiero appassionato perché mai il lavoro di cui il pane è il simbolo non vi venisse a mancare e che questa fabbrica fosse protetta e prima e durante e dopo il tempo di una terribile guerra, in una parola che la Provvidenza aiutasse un comune destino giacché Essa mi aveva assegnato un compito e una precisa responsabilità verso di voi. Ho sempre saputo, fin troppo bene, come errori e debolezze e manchevolezza avrebbero potuto ripercuotersi dolorosamente sopra tutti, come la mia forza e il mio sforzo erano fin troppo legati al vostro avvenire. 

Ebbene oggi  nessuno  ha avuto il coraggio di pronunciare parole simili in questa circostanza drammatica. 

Anche Adriano Olivetti è finito dentro l’oscurità di quel binario  di morte.

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S’ode, a destra, un tintinnar di spiccioli…

di Antonio Damiani

Come ogni anno a fine estate e con i primi temporali si comincia a parlare di Finanziaria. Quest’anno la discussione sembra particolarmente complicata, fra congiuntura economica non brillante, rapporti europei tesi e mirabolanti promesse elettorali.
Insomma il piatto piange.
E si ricomincia a parlare di sterilizzazione dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione, come se non bastasse il pesante e strutturale taglieggiamento dello scorso anno.
E si parla di neutralizzazione dei contratti e di risparmi sulla sanità.
Fra le altre geniali iniziative si ricomincia a parlare di privatizzazioni e dismissioni. Ovviamente solo per fare cassa, senza uno straccio di politica industriale nazionale, alla faccia del sovranismo.
Tutte cose già fatte per carità, anche da governi con tonalità diverse dall’attuale grigio fumo.
Fra le dismissioni da effettuare un posto in prima fila lo merita il settore creditizio. Si sa, le banche servono a prelevare soldi, guai a considerale al centro di ogni serio tentativo di programmazione, di guida dei vari processi di transizione, di lotta alle diseguaglianze.
Meglio quindi un settore interamente in mano ai privati, con CdA che devono rispondere solo agli azionisti, senza dover perdere tempo con compatibilità ambientali e sociali, con mediazioni territoriali, con progetti utili alla collettività. In altre parole con la democrazia.
Non sarebbe il caso che, anche su questo, la sinistra (do you remember?) qualcosa la dicesse?

A proposito dell’immagine di copertina.

Trova la differenza: qual è la banca che negli anni settanta non emise mai alcun biglietto di carta delle famose 100 lire?

Risposta: il Monte dei Paschi di Siena!!!!

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 “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”

Sima convinti che l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla giornata conclusiva della 44° edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli costituisca uno dei momenti più alti del suo mandato. L’indifferenza con cui è stato accolto dal Governo Meloni costituisce un pericolo ben più alto piuttosto che  un libro di cui non resterà alcuna traccia nei prossimi anni.

Vorrei che ci interrogassimo.

Su cosa si fonda la società umana; la realtà nella quale ciascuno di noi è inserito; la realtà che si è organizzata, nei secoli, in società politica dando vita alle regole – e alle istituzioni – che caratterizzano l’esperienza dei nostri giorni?

È, forse, il carattere dello scontro? È inseguire soltanto il proprio accesso ai beni essenziali e di consumo? È l‘ostilità verso o il proprio vicino, o il proprio lontano? È la contrapposizione tra diversi? O è, addirittura, sul sentimento dell’odio che si basa la convivenza tra le persone?

Se avessimo risposto affermativamente, anche, soltanto, a una di queste domande, con ogni probabilità, il destino dell’umanità si sarebbe condannato da solo; e da tempo.

Invece, il crescere dell’amicizia fra le persone è quel che ha caratterizzato il progresso dell’umanità.

L’amicizia, come vocazione – incomprimibile – dell’uomo.

Vi è una circostanza, che richiama l’attenzione. Ogni volta che l’umanità si è trovata di fronte al baratro – è accaduto con le due guerre, mondiali, novecentesche – ha trovato, dentro di sé, le risorse quelle morali, per ripartire, per costruire un mondo diverso, in cui il conflitto lasciasse posto all’incontro. Per immaginare e progettare, il futuro insieme.

E se questa prospettiva è naufragata nel decennio, iniziato quasi alla metà degli anni venti, proprio per difetto di sentimenti di solidarietà e di reciproca comprensione e disponibilità tra i popoli, ha avuto successo, negli anni Quaranta e Cinquanta, per la comunità internazionale, con il dar vita alle Nazioni Unite e con l’avvio della integrazione d’Europa.

Uno spirito, analogo, ha ispirato la nostra Assemblea Costituente nella quale opinioni diverse si sono incontrate in spirito di collaborazione, per condividere e affermare i valori della dignità, ed eguaglianza, delle persone; della pace; della libertà.

Ecco, come nasce la nostra Costituzione: con l’amicizia come risorsa a cui attingere per superare – insieme – le barriere e gli ostacoli; per esprimere la nostra stessa umanità.

Per superare, per espellere l’odio, come misura dei rapporti umani. Quell’odio che la civiltà umana ci chiede di sconfiggere nelle relazioni tra le persone; sanzionandone, severamente, i comportamenti, creando, così, le basi delle regole della nostra convivenza.

“Homo homini lupus” di Plauto e il presunto “stato di natura” di Thomas Hobbes hanno, sempre, rappresentato ostacoli per la soluzione dei problemi dell’umanità.

L’aspirazione non può essere quella di immaginare che l’amicizia unisca soltanto coloro che si riconoscono come simili.

Al contrario. Se così fosse, saremmo sulla strada della spinta alla omologazione, all’appiattimento.

L’opposto del rispetto delle diversità; delle specificità proprie a ciascuna persona.

Non a caso, la pretesa della massificazione è quel che ha caratterizzato ideologie e culture del Novecento che hanno portato alla oppressione dell’uomo sull’uomo.

Le identità plurali delle nostre comunità sono il frutto del convergere delle identità di ciascuno di coloro che le abitano, le rinnovano, le vivificano. Nel succedersi delle generazioni e delle svolte della storia.

È la somma dei tanti “tu”, uniti a ciascun “io”, interpellati dal valore della fraternità, o, quanto meno, del rispetto e della reciproca considerazione.

È il valore della nostra Patria, del nostro straordinario popolo – tanto apprezzato e amato nel mondo – frutto, nel succedersi della storia, dell’incontro di più etnie, consuetudini, esperienze, religioni; di apporto di diversi idiomi per la nostra splendida lingua; e nella direzione del bene comune.

Amicizia, per definizione, è contrapposizione alla violenza. Parte dalla conoscenza e dal dialogo. Anche in questo, l’amicizia assume valore di indicazione politica.

Non mancano, mai, i pretesti per alimentare i contrasti.

Siano la invocazione di contrapposizioni ideologiche; la invocazione di caratteri etnici; di ingannevoli, lotte di classe; o la pretesa di resuscitare anacronistici nazionalismi.

Quanto avviene ai confini della nostra Europa, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, ne dà drammatica testimonianza.

Viviamo un tempo di cambiamenti profondi, velocissimi, addirittura tumultuosi in alcuni campi. Tanto da non consentire, spesso, di avvalersi di uno sguardo lungo che ci aiuti a comprendere, in profondità, quale sia la direzione della nostra vita; immersi nell’affannoso consumo di un eterno presente; immemore del giorno prima e indifferente al giorno dopo.

Le trasformazioni incidono sui modelli sociali, sulla produzione e il lavoro, ma anche sugli abiti mentali, sulla stessa cultura, sulle aspettative delle donne e degli uomini.

Tanti descrivono il nostro come il tempo dell’individuo. L’individuo che sente di avere opportunità e respiro, mai raggiunti prima.

È giusto cogliere, in questo processo, il segno positivo in termini di comprensione del proprio ruolo, della propria responsabilità, dei propri diritti. Ma occorre, anche, saperne leggere i rischi di aspetti critici, di distorsioni.

L’auto-affermazione dell’io, nella sua più assoluta centralità in realtà nella sua piena solitudine, appare priva di qualunque senso.

Il concetto di individuo rischierebbe di separarsi da quello di persona.

L’affermazione di sé – uno dei motori della vita comunitaria – vale, in realtà, se è inserita nella comunità in cui si è nati, o in cui si è scelto di vivere; e se contribuisce alla sua crescita.

Vorrei attirare, ora, la vostra attenzione su un tema ricco di suggestioni ed evocativo; che si inserisce, a mio giudizio, nel filone di riflessione sul rapporto tra amicizia e istituzioni.

Nel dibattito pubblico si cita, sovente, il “diritto alla felicità” elencata – come da perseguire – assieme a quelli alla vita e alla libertà, nella Dichiarazione di indipendenza, del 4 luglio 1776, degli Stati Uniti.

È già interessante notare l’influenza del pensiero di esponenti della cultura del nostro Paese su quel testo. Nel confronto tra Beniamino Franklin e il filosofo napoletano Gaetano Filangieri fu, infatti, l’insegnamento di quest’ultimo a suggerire di sostituire alla espressione “diritto alla proprietà” quella relativa alla felicità.

Non vi è definizione equivalente nella nostra Carta costituzionale; eppure, vi sono pochi dubbi circa il fatto che gli articoli della Costituzione delineino una serie di diritti, e chiedano, alla Repubblica, una serie di azioni positive per conseguire condizioni che rendano gratificante l’esistenza; sia pure senza la pretesa che la felicità sia una condizione permanente; quasi che la vita, con le sue traversie, non introduca momenti di segno diverso.

È sufficiente riferirsi all’art. 2 della Carta dove si prevede che la Repubblica deve riconoscere, e garantire, i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità; e deve richiedere l’adempimento dei doveri, inderogabili, di solidarietà. E, all’art. 3, che chiede alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana; dopo aver sancito che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono uguali davanti alla legge.

È, cioè, la dimensione comunitaria; sono le relazioni sociali a determinare la concretezza di esercizio dei diritti.

Ecco allora: le nostre istituzioni sono basate sulla concordia sociale, sul perseguimento – attraverso la coesione, dunque la solidarietà – di sentimenti di rispetto e di collaborazione: l’amicizia riempie questi rapporti, rendendoli condizione per la felicità.

Sono i sentimenti e i comportamenti umani che esaltano la vita della comunità.

Il benessere consentito dalla pace – di cui, sino a ieri, ha potuto godere l’Europa – è frutto di questa visione. È la discordia che lo pone a rischio.

È un tema universale.

L’Onu, dieci anni fa, ha definito il 20 marzo Giornata Internazionale della Felicità invitando tutti gli Stati membri, le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite, altri organismi internazionali e regionali, così come la società civile, incluse le organizzazioni non governative, e i singoli individui, a celebrare questa ricorrenza in maniera appropriata, anche attraverso attività educative, di crescita della consapevolezza pubblica (…).

Nell’occasione, il Segretario generale dell’epoca Ban Ki-moon ha ribadito: “Felicità, è aiutare gli altri. Quando, con le nostre azioni, contribuiamo al bene comune, noi stessi ci arricchiamo. È la solidarietà – diceva – che promuove la felicità”.

L’amicizia, come è evidente, non è una questione intimista. Nasce, anzitutto, dal riconoscere l’altro – nella sua diversità – uguale a noi stessi.

Ecco, ancora una volta, perché il sentimento dell’amicizia supera la qualità – che sovente gli viene attribuita – di mera terapia contro la solitudine, di edulcorante dell’esistenza, e riconferma il suo valore di scelta sociale e politica su cui fondare la società, su cui fondare il rapporto con gli altri popoli nella dimensione della comune appartenenza all’unica famiglia umana – qui ricordata, giorni fa dal Cardinale Zuppi – e nella dimensione dell’incontro.

Sono trascorsi ottant’anni dal convegno di Camaldoli, nel luglio del 1943, nel quale un nucleo di intellettuali cattolici provò a delineare le caratteristiche e i principi di un nuovo ordinamento democratico.

La dittatura fascista si stava consumando; ma ancora avrebbe causato – all’Italia e all’Europa – lutti, devastazioni, crudeltà, sofferenze.

A Camaldoli provarono – nella temperie più drammatica – a disegnare una democrazia, un ordinamento pluralista; fondato sull’inviolabile primato della persona e sulla preesistenza delle comunità rispetto allo Stato.

Perché il bene comune è responsabilità di tutti.

Come, poc’anzi ricordavo, in Italia abbiamo la fortuna di una Costituzione orientata al rispetto della dignità di ogni persona; alle sue possibilità di realizzazione personale; e, quindi, al perseguimento della felicità di ciascuno, nel rispetto del bene comune.

Ne troviamo consapevolezza nelle prime parole del Codice di Camaldoli, quello che fu chiamato successivamente Codice di Camaldoli : “L’uomo è, per sua natura, un essere socievole: sussiste, cioè, fra gli uomini una naturale solidarietà, fratellanza e complementarietà, per cui le esigenze delle singole, personalità non possono essere pienamente soddisfatte che nella società”.

È il binomio persona-comunità a sorreggere un ordinamento che non deve essere intrusivo, ma diretto a valorizzare pluralità e libertà.

Papa Francesco, nell’enciclica “Fratelli tutti”, ha parlato di “amicizia sociale” come orizzonte di un nuovo, più intenso, dialogo tra le generazioni; tra la cultura popolare e quella accademica; tra l’arte, la tecnologia, l’economia.

Un rinnovato umanesimo nel tempo dell’innovazione, in cui avanzano le neuroscienze, la robotica, l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica, le frontiere della medicina, le tecnologie digitali.

L’amicizia sociale è una dimensione che lega la comunità, nell’affrontare le sfide della storia.

Favorire la dimensione sociale dell’amicizia è un impegno a cui sono chiamate, tutte, le pubbliche istituzioni; ma, con esse, anche le forze sociali, economiche, le energie civili.

Ora, siamo di fronte a un’altra, grande, e grave evidenza che comporta responsabilità.

L’ambiente che abbiamo incrinato e impoverito,

Non si possono ignorare gli appelli dell’ONU attraverso le parole, allarmate, del suo Segretario Generale.

Proprio qui, in Romagna, ne abbiamo vissuto drammatica, sottolineatura. L’alluvione ha lasciato ferite profonde.

I cittadini della Romagna – e i loro sindaci – non vanno lasciati soli. La ripartenza delle comunità e, con esse, di ogni loro attività, è una priorità, non soltanto per chi vive qui, ma per l’intera Italia.

L’amicizia è fonte di speranza.

La speranza nasce da un sentire comune.

Da un sostegno offerto.

Da testimonianze coerenti.

Da un futuro immaginato insieme.

“La speranza è il respiro della vita umana” ha scritto Jurgen Moltmann. E lo è, anche, – vorrei aggiungere – della vita di ogni comunità.

Non vogliamo rinunciare, oggi, alla speranza della pace in Europa.

L’Europa, che conosciamo, è nata da un reciproco impegno di pace che i popoli e gli Stati si sono scambiati, dopo l’abisso della seconda guerra mondiale.

Su quella pace sono stati edificati i nostri ordinamenti di libertà, di democrazia, di diritto eguale.

Su quella pace è cresciuta la civiltà degli europei.

Non ci stancheremo di lavorare per fermare la guerra.

È contro lo strumento della guerra che siamo impegnati per impedire una deriva di aggressioni del più forte contro il più debole.

Per costruire una pace giusta.

Una pace giusta non può dimenticare il dramma dei profughi.

I fenomeni migratori vanno affrontati per quel che sono: movimenti globali, che non vengono cancellati da muri o barriere.

Nello studio dell’appartamento dove vivo al Quirinale ho collocato un disegno che raffigura un ragazzino, di quattordici anni, annegato, con centinaia di altre persone, nel Mediterraneo. Recuperato il suo corpo si è visto che, nella fodera della giacca, aveva cucita la sua pagella: come fosse il suo passaporto, la dimostrazione che voleva venire in Europa per studiare.

Questo disegno mi rammenta che, dietro numeri e percentuali delle migrazioni, che spesso elenchiamo, vi sono innumerevoli, singole, persone, con la storia di ciascuno, i loro progetti, i loro sogni, il loro futuro.

Il loro futuro: tante volte cancellato.

Certo, occorre un impegno, finalmente concreto e costante, e proprio dell’Unione Europea. Occorre sostegno ai Paesi di origine dei flussi migratori.

È necessario rendersi conto che soltanto ingressi regolari, sostenibili, ma in numero adeguatamente ampio, sono lo strumento per stroncare il crudele traffico di esseri umani: la prospettiva e la speranza di venire, senza costi e sofferenze disumane, indurrebbe ad attendere turni di autorizzazione legale.

Inoltre, ne verrebbe assicurato inserimento lavorativo ordinato; rimuovendo la presenza incontrollabile, di chi vaga senza casa, senza lavoro e senza speranza; o di chi vive ammassato in centri di raccolta, sovente mal tollerati dalle comunità locali.

Occorre percorrere strade diverse.

Se non se ne avverte il senso di fraternità umana, per una miglior sicurezza.

Anche come investimento, anche di amicizia, sul futuro delle relazioni, con i popoli di origine, che saranno – presto – sempre più protagonisti della scena internazionale.

Amicizia. Comincia da noi. Dal nostro modo di essere. Dalla nostra voglia di dare più umanità al mondo intorno a noi.

La speranza è in voi giovani.

Prendetevi quel che è vostro. Comprese le responsabilità e i doveri.

Voi avvertite, in maniera genuina, tutti questi problemi.

Avete la sensibilità di sentirvi pienamente europei. Più degli adulti.

Avete conoscenze adeguate per affrontare, senza timore, le trasformazioni digitali e tecnologiche che sono già in atto.

Avete la coscienza che l’ambiente è parte della nostra vita sociale. Che non ci sarà giustizia sociale senza giustizia ambientale; e viceversa.

Non vi chiudete, non fatevi chiudere in tanti mondi separati. Usate i social, sempre con intelligenza; impedite che vi catturino, producendo una somma di solitudini, come diceva il mio Vescovo di tanti anni addietro.

Non rinunciate, mai, alle relazioni personali; all’incontro personale; all’affetto dell’amico; all’amore; alla gratuità dell’impegno.

Il mondo è migliore, se lo guardiamo con gli occhi giusti.

Ci aiuta, in questo caso, ancora, la nostra Costituzione.

In un discorso, tenuto alla Università di Parma, nel 1995, Giuseppe Dossetti – che, dell’Assemblea Costituente, era stato partecipe e protagonista – rivolse un appello ai giovani: “non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ‘48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa – disse -. La Costituzione americana è in vigore da duecento anni e, in questi due secoli, nessuna generazione l’ha rifiutata, o ha proposto di riscriverla integralmente; ha soltanto operato, singoli emendamenti puntuali, rispetto al testo originario dei Padri di Philadelphia; nonostante che, nel frattempo, la società americana, sia passata, da uno Stato di pionieri, a uno Stato, oggi, leader del mondo…E’ proprio, nei momenti di confusione, o di transizione indistinta, che le Costituzioni adempiono la, più vera, loro funzione: cioè, quella di essere, per tutti, punto di riferimento e di chiarimento. Cercate, quindi, di conoscerla; di comprendere, in profondità, i suoi principî fondanti; e, quindi, di farvela amica e compagna di strada… vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento; per qualunque cammino vogliate procedere, e per qualunque meta vi prefissiate”.

Facciamo nostre queste parole.

Quest’anno, il Meeting ribadisce la sua ragione fondativa: “Meeting per l’amicizia fra i popoli”, come suona, il suo nome, per esteso.

Ce n’è bisogno.

Fate che la speranza e l’amicizia corrano, anche, sulle vostre gambe.

E si diffondano attraverso le vostre voci.

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Woke capitalism ovvero il risveglio del capitale

Alla vigilia di ferragosto il quotidiano cattolico Avvenire titolava in prima pagina (nel più completo disinteresse generale) “Arruolati in borsa” dando conto di un’altra controffensiva della guerra russo-ucraina. Quella contro la finanza etica ritenuta responsabile di aver elevato trincee ir-responsabili, in-sostenibili verso l’industria delle armi proprio ora che è hai massimi nei listini di borsa globali. La sintesi di Aarin Chiekrie, analista di Hargreaves Lansdown, sugli scenari del futuro non può essere più esplicita: il limite per i budget in Difesa, ha scritto agli investitori, «è il cielo». Tanto è vero che nella City di Londra sono in molti a non volere perdere l’occasione.

Nasce da qui l’iniziativa di due deputati tory sottosegretari del governo britannico, Andrew Griffith e James Cartlidge, con delega, rispettivamente, ai servizi finanziari e agli appalti militari che hanno scritto in una lettera il primo agosto al Mail on Sunday accusando gli investitori di ignorare  la guerra tra Russia e Ucraina proprio ora che infuria alle porte dell’Europa  applicando criteri di sostenibilità che mordono il freno al settore della Difesa.

In pratica per Griffith e Cartlidge la finanza etica è un « virus » che avrebbe pericolosamente contaminato l’industria e la finanza britannica

Carl Rhodes, professore di Teorie dell’organizzazione e preside della UTS Business School presso la University of Technology di Sydney, in Australia, studia le dimensioni etiche e democratiche dell’impresa e del lavoro e autore di “Capitalism woke” – come la moralità aziendale minaccia la democrazia, la definisce così: “una tattica difensiva per scongiurare quella che era vista come una vera minaccia del socialismo”. Oggi, molti dei più importanti sostenitori del capitalismo woke affermano che la rabbia popolare per gli impatti negativi delle grandi imprese rappresenta una minaccia esistenziale che deve essere sventata.

Il capitalismo woke, come la responsabilità sociale d’impresa prima di esso, consiste nel “garantire che il capitalismo e le disuguaglianze che produce possano sopravvivere senza una rivolta popolare”.

Oggi 15 Agosto ci piace ricordare che secondo la tradizione cattolica si celebra la morte e la rinascita della Vergine, che in queste giornata venne accolta in cielo, sia con l’anima che con il corpo.

Un cielo di pace come quello che sta combattendo  Papa Francesco.

Una domanda: la finanza complementare italiana che nasce dal mondo del lavoro dove vuole arruolarsi nella city o in piazza San Pietro?

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   I mass media e il clima impazzito 

            “Che Dio ce la mandi buona”  (Bruno Vespa)


di Ugo Balzametti

Il clima impazzito

Il numero e l’intensità di  eventi  estremi avvenuti  in Italia in questi ultimi due anni hanno reso evidente a tutti l’intensificarsi degli impatti del cambiamento climatico.  Il clima che  cambia non è un’opinione ma è un’evidenza scientifica. E la corretta informazione  su questi temi è un punto cruciale nella lotta contro il cambiamento atmosferico.

La crisi ecologica in atto, tale da mettere in pericolo la vita sul pianeta, non può essere affrontata senza la consapevolezza che il modello di produzione capitalistica, egemone nel mondo, ne è strutturalmente la causa.  Solo il superamento  di quel modello economico-produttivo, basato sullo sfruttamento dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo, può portare ad una via di uscita da questa crisi.

In Italia l’estate del 2022 è stata l’estate più calda dopo quella del 2003. E’ quanto  ci dicono  anche recenti dati del CNR. Anche a livello globale le rilevazioni sulle temperature hanno confermato l’anomalia climatica che ha determinato ondate di caldo estremo, siccità e inondazioni devastanti, come sottolinea un documento dell’Organizzazione metereologica mondiale. 

Nel nostro Paese si sono registrati ben 132 eventi climatici estremi, numero più alto della media annua dell’ultimo decennio, con pesanti conseguenze sulla salute, l’agricoltura, la produzione di energia.

Questo intensificarsi degli effetti del climate change  deve far riflettere sulle responsabilità che ciascuno di noi ha per fare in modo che l’azione collettiva di contrasto al clima che cambia sia la più efficace e rapida possibile.

Nel suo ultimo Rapporto, il Gruppo intergovernativo dell’ONU sui cambiamenti  climatici (IPCC, il più importante istituto di ricerca al mondo sui cambiamenti climatici ) con estrema chiarezza ha indicato nelle emissioni di gas serra, prodotte dall’utilizzo dei combustibili fossili, le cause principali del cambiamento climatico e individuato nella loro rapida eliminazione, nell’efficienza energetica  e nella generazione di fonti rinnovabili le uniche vere strade per la decarbonizzazione .

La maggior parte  degli esperti concorda sul fatto che in futuro farà sempre più caldo e l’Europa sta andando incontro a qualcosa simile  alla desertificazione.  Ma paradossalmente in Italia la questione viene trattata dai mezzi di informazione, salvo rare eccezioni, come fenomeno meteorologico e derubricato a “caldo anomalo e fuori stagione”.

A tale proposito ad aprile è uscito  il rapporto annuale sullo stato del clima in Europa, elaborato dagli scienziati di Copernicus climate change service. Viene lanciato un forte grido d’allarme  perché siamo ad un punto di non ritorno, una condizione che mal si sposa con gli slogan  dei negazionisti nostrani, ad iniziare dalla P residente Meloni, che negli ultimi mesi si sono  messi di traverso in Europa su ogni misura per tagliare le emissioni di CO2.

C’è da sottolineare che le alte temperature sono un rischio per la salute umana. In Italia, in 27 città oggetto di analisi, grazie ai dati raccolti dal Sitema di allarme nell’ambito del Piano operativo nazionale per la prevenzione degli effetti del caldo, è stato possibile stimare il numero di decessi attribuibili al  caldo nell’estate del 2022: 2.304 decessi, un significativo aumento rispetto ai 1.472 nel 2021.

In questo contesto di lenta  presa di coscienza collettiva, un ruolo fondamentale è giocato anche dai mezzi di comunicazione, sia come strumento di corretta informazione  sia come azione di stimolo ad operare  rapidamente. 

Ruolo dei mezzi di informazione

La narrazione che i mass media fanno dei temi ambientali in generale, specie quelli climatici, rischia spesso di essere  ambivalente oscillando tra l’ottimismo di chi nega ogni male o dà ad intendere che gli effetti della crisi possano essere sconfitti in tempi brevi, e il catastrofismo di chi fa credere che un tempo tutto andava bene e che uomo e natura  fossero in perfetto equilibrio .

Purtroppo dobbiamo constatare che  oggi l’informazione  sulle tematiche relative al clima impazzito non sempre viene data con il dovuto rigore scientifico e con un adeguato livello di approfondimento dei fenomeni climalteranti. Non si può tacere che, ad esempio,  sulle pagine del Corriere della Sera si sia dato spazio anche a posizioni negazioniste. 

Tuttora, certe grandi firme del giornalismo, editorialisti nostrani dimostrano di non aver capito molto della crisi climatica e della transizione ecologica. Sono posizioni condizionate anche da orientamenti ideologici, oltre che da una pigrizia culturale allo stesso livello dell’antivaccinismo.

 L’ambivalenza non di rado è frutto dell’ignoranza dei comunicatori,  a volte  è anche responsabilità della comunità scientifica “che non ha saputo, e non sa, parlare alla società in modo chiaro,  non dando giudizi di merito e non indicando le criticità di ogni scelta, senza spandere a piene mani illusorie certezze” (da rapporto Greenpeace).

La lotta contro la crisi climatica richiede interventi di tale importanza e portata che non è possibile si possano affrontare senza una diffusa consapevolezza del problema e delle sue conseguenze. E’ necessario costruire un vasto sostegno della popolazione alle politiche per il clima. Si deve coinvolgere, mobilitare l’opinione pubblica.       Deve essere una priorità per tutta la società.

Partendo da questo assunto è lecito domandarsi come le persone  vivano il cambiamento climatico nella propria vita. Ci si rende conto quanto rapido sia stato il riscaldamento globale? Sono chiari gli effetti che ne derivano?

Trovare risposte adeguate è difficile e, per farlo, non è sufficiente realizzare dei sondaggi. Si devono approfondire questi dati e studiare quali sono i fattori che  condizionano  le opinioni, che influenzano la percezione della realtà del cambiamento climatico.

Chi informa sul  cambiamento climatico si trova davanti a sé diversi ostacoli, anche di carattere psicologico. La nostra vita sta cambiando, per la scienza le sue manifestazioni sono chiare. Per il resto della società sono più difficili da  cogliere.

Dal Rapporto IPCC presentato alla fine di aprile 2023  si evince che la temperatura media del Pianeta è già aumentata di 1,1°C rispetto all’era pre-industriale e si sta pericolosamente avvicinando all’1,5°C. “ che non è un numero arbitrario, non è un dato politico, bensì è un limite planetario, è scienza reale, e ogni  frazione di grado in più è pericoloso per tutti noi” 

L’accordo di Parigi del 2015 si poneva l’obiettivo di non superare la soglia dell’1,5°C  entro il 2030 e azzerare tutte le emissioni entro il 2050. Purtroppo stiamo andando in un’altra direzione    Se ora sta succedendo tutto quello che stiamo vivendo,  cosa accadrà se si dovesse arrivare a 2°C?

Da quando il fattore climatico è emerso come tema collettivo, il   riscaldamento globale è diventato questione politica. E le azioni di contrasto alle emissioni hanno trovato l’opposizione di alcuni settori politici della destra conservatrice, oltre che dell’industria dei combustibili fossili. Tuttora  il negazionismo climatico attecchisce più facilmente in alcune ideologie e culture politiche.

Ne consegue che se la scienza non aiuta è anche perché la politica le ha attribuito compiti che non le appartengono, dietro i quali i politicanti si nascondono per non assumersi le proprie responsabilità

In questo contesto  allora le conoscenze sono indispensabili affinchè il cittadino possa formulare un giudizio di merito non superficiale. La conoscenza è un fattore che condiziona la percezione insita in una collettività. Senza informazione non è possibile maturare una cognizione pubblica né può essere patrimonio dei soli esperti.

Quando la comunicazione trasuda “certezze”, verità, sentenze inappellabili, non ci si rende conto che il grande nemico della conoscenza e della scienza  non è l’ignoranza bensì l’illusione della certezza. 

Come comunicare

Nessuno pensa che sia semplice comunicare il cambiamento climatico. Una serie di studi scientifici riportati da un report pubblicato di recente dall’U.E. ha evidenziato che, per i mezzi d’informazione, trattare questo tema presenta una serie di criticità.

Innanzi tutto l’eco-sistema informativo versa ormai da anni in una profonda crisi finanziaria. Il tema del riscaldamento del Pianeta è tema complesso e richiederebbe  far maturare, nella redazione di un giornale, un team dedicato, da supportare con la formazione mirata e risorse per la sperimentazione di  modelli, linguaggi e prodotti che possano innalzare la qualità dell’intervento.  

Esiste un altro problema in parte legato al primo, ovvero lo scarso coinvolgimento dei lettori verso il tema del cambiamento climatico. Si tratta di trasmettere informazioni molto complesse, i cui eventuali effetti peggiori vengono  collocati in un futuro ipotetico e con pesi diversi a seconda dei percorsi di mitigazione e transizione energetica  che l’uomo deciderà di percorrere.

Non è facile trovare un linguaggio corretto per parlare di questi temi. Deve essere usato un linguaggio che non allontani, non annoi, non metta paura. Un linguaggio rigoroso, come quello di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’ dove il rigore scientifico s’intreccia con l’azione concreta, capace di parlare alla comunità  di tutto il Pianeta. 

Comunicare in modo qualificato e competente la crisi climatica non è un aspetto secondario del problema,  è parte della  sua stessa soluzione.   La riflessione su quali termini scegliere e quali no  potrebbe apparire una questione banale se poi, accendendo la TV o leggendo un quotidiano, si incappa in posizioni infondate  di negazionismo climatico poste sullo stesso piano delle più accreditate e condivise. 

Il primo ostacolo è rappresentato dalla barriera linguistica. L’80% dei documenti istituzionali o di articoli scientifici è in inglese. Gran parte della popolazione del Pianeta parla lingue indigene. Ma la riflessione è più ampia: ci sono parole che dovremmo usare (e non usare) per comunicare bene la crisi climatica, e non va sottovalutata l’importanza che semplificare  non vuol dire banalizzare.

C’è inoltre un problema di distanza fisica dei fenomeni.   La scienza da tempo tiene sotto osservazione non solo gli effetti climatici del riscaldamento terrestre, ma anche, ad esempio, la fusione dei ghiacci dell’Artico e dei ghiacciai di montagna o la distruzione delle barrire coralline. Ma tutto ciò avviene   in aree remote, disabitate. Sono realtà che vediamo lontane,  che non ci riguardano.      

A questo punto facciamo un passo in avanti e analizziamo quanto e come viene raccontata  dai media italiani la crisi climatica. Nel corso del 2022 Greenpeace, in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, ha monitorato articoli, programmi e telegiornali per analizzare quanto e come si parla di clima sui nostri mass media. Questi studi permettono anche di valutare il livello di coinvolgimento cognitivo delle comunità necessario per questa sfida.

Il rapporto di Greenpeace

Naturalmente attivare i cittadini sul tema non è compito dei giornalisti. Ma dire la verità sicuramente fa parte dell’etica della professione e nel momento in cui si  tacciono elementi chiave  del discorso  si trasmette al lettore una visione distorta del fenomeno e se ne influenza l’interpretazione. 

Secondo il report di Greenpeace le cause della crisi sono messe in luce solo in poco più del 20% degli articoli e in meno dell’8% dei servizi dei telegiornali in cui si parla di clima.

Dal 1 maggio al 31 di agosto i 5 quotidiani messi sotto osservazione (Il Corriere della Sera, Repubblica, La stampa,, il Sole24Ore e L’Avvenire) hanno pubblicato quattro articoli al giorno (3,62) e i TG quasi una notizia  ogni due giorni (0,43), le trasmissioni TV ne hanno  parlato in più di una puntata su quattro (27%) . Meno del 3% dei servizi dei tg riguarda i temi della crisi climatica. In compenso raddoppia la pubblicità dei settori più inquinanti .     

La copertura da parte della stampa nel 37,6 dei casi ha riguardato articoli che si limitano a citare la crisi.  I servizi televisivi sono in numero minore, ma più focalizzati sulla crisi climatica come aspetto  centrale (18,3%).  La stampa dedica più spazio ad articoli che sono focalizzati sulla riduzioni delle emissioni, ma non citano la relazione con il climate change: 21,1% vs il 5,7% dei TG e il  6,7 delle trasmissioni.

Di conseguenza analizzando questi dati il monitoraggio di Greenpaeace  ha confermato che la crisi climatica è ancora argomento marginale nelle agende dei mass media italiani.    Con riferimento ai giornali e alle Tv nel contempo si è registrato un dato eclatante: “oltre il 20% delle notizie fa da megafono ad   argomenti in opposizione alla transizione  energetica e ad  azioni per mitigare il riscaldamento globale”

Resta invece molto elevato lo spazio offerto alla pubblicità dell’industria dei combustibili fossili tra i maggiori  responsabili del riscaldamento del Pianeta.    Sul Sole24Ore si contano 5 pubblicità a settimana  di queste aziende inquinanti, mentre la media di tutti i giornali è di oltre 3 pubblicità a settimana. L’influenza del mondo economico  sulla stampa emerge anche esaminando il modo in cui i principali quotidiani raccontano la crisi climatica.

Negli articoli dedicati al riscaldamento del Pianeta, infatti, le aziende si confermano il soggetto che ha più  voce in assoluto (16,3) superando gli esperti (15,3%), i politici (12,8%) e le associazioni ambientalistiche (12,2%).

Tra settembre e dicembre 2022, sono stati 886 gli articoli in cui si parla di crisi climatica: tre su quattro fanno esplicito riferimento alla crisi, ma nella metà di questi la questione è soltanto citata.

Il modo con cui viene riportata una notizia è questione  molto rilevante perché se i media  presentano un tema in una determinata maniera, quel tema sarà percepito in quel determinato modo: se l’emergenza climatica non viene presentata come tale, l’emergenza non esiste. E’ la logica dei talk show bellezza, 

A tale proposito Giancarlo Sturloni , responsabile della comunicazione di Greenpeace,  sottolineava “Tutto questo non cambierà finchè i principali organi di informazione  continueranno a dipendere dalla pubblicità delle aziende inquinanti, e la classe politica  preferirà  assecondare gli interessi dell’industria  dei combustibili fossili anziché quello della collettività.”

Il giornale più attento comunque è il Sole24Ore,  seguito da Avvenire: il primo però parla di riscaldamento globale soprattutto  in modo implicito ( in 125 articoli su 282 del quadrimestre), il secondo  dà un peso più centrale al fenomeno (in 67 articoli su 214).

L’Osservatorio di Pavia, su indicazione di Greenpeace Italia, ha realizzato nel 2022 uno studio che ha analizzato sette TG  di prima serata. Il risultato emerso è che su 42.271 notizie, solo 855 trattavano implicitamente o esplicitamente la crisi climatica. Ad inizio anno la copertura dei media è stata bassa. Quando la siccità ha colpito l’Italia il numero delle notizie sulla crisi sono aumentate. Questo sta a significare che l’informazione segue la cronaca degli eventi. Specie se hanno caratteristiche estreme.

Questi fenomeni rappresentano il 7% delle notizie ed hanno permesso ai temi ambientali e climatici di essere in cima all’attenzione dei media  per settimane. 

Però i fatti tragici legati al clima non possono esser dati da soli, tanto più se vengono trasmessi in modo sporadico, sganciati come “ bombe ad orologeria” nel quotidiano vivere delle persone. 

Sarebbe utile seguire un altro metodo d’informazione, lasciando spazio  d’intervento ad esperti al fine di spiegare in dettaglio  cosa possiamo aspettarci e quali comportamenti adottare in queste circostanze.

Ma l’informazione è decisamente parziale, perché poco si parla delle cause e quasi mai vengono esplicitate le conseguenze nè tanto  meno vengono indicati i responsabili.  Poche volte si fa riferimento ai combustibili fossili che sono stati scientificamente riconosciuti come la causa principale di questa crisi.

Ad intervenire in genere sono politici o istituzioni nazionali o internazionali che rappresentano  il 63% degli intervistati. Il TG5 ( con il 2,7% sul totale delle notizie trasmesse) e il TG1 (2,4%) sono i TG che danno più spazio ai cambiamenti di clima, mentre in coda troviamo il TGLa7 di Enrico Mentana con appena l’1% delle notizie trasmesse.

Anche nei programmi di intrattenimento in 116 delle 450 puntate monitorate, si è parlato di clima. La trasmissione che più ne ha parlato è Uno Mattina (Rai1), meno di tutte l’Aria che Tira (La7). 

A conferma di quanto possa essere fideistico e superficiale il modo di affrontare il tema del riscaldamento climatico anche da parte   di giornalisti famosi basta citare Bruno Vespa che, nella sua striscia quotidiana dopo il TG 1, congedandosi  da Carlo Buontempo, direttore di Copernicus  servizio cambiamento climatico dei satelliti europei, l’ha salutato con un “Bene, grazie direttore e che Dio ce la mandi buona”. 

Le notizie fasulle – rapporto Censis

  Il dato più sconcertante evidenziato dal Rapporto è tuttavia l’elevato numero di notizie -più di una su cinque-  che hanno diffuso argomenti a favore dello status quo e contro le azioni per il clima come , ad esempio, sostenere che la transizione ha costi eccessivi o invocare una esasperata gradualità degli interventi, favorendo di fatto l’immobilismo.

Per quanto riguarda infine  le testate di informazione più diffuse su Instagram, che spesso è punto di riferimento per i più giovani, nella prima metà del 2022 le notizie sulla crisi climatica sono state poco meno del 3%. Hanno trovato più spazio gli aspetti sociali e ambientali  rispetto a quelli politici ed economici.

Il monitoraggio dei media italiani continuerà per tutto l’anno 2023.

Dobbiamo registrare,  come i dati esplicitati finora siano confermati dall’ultimo rapporto Censis su “ il sistema dell’informazione alla prova dell’Intelligenza artificiale”, pubblicato il giorno dopo il nubifragio in Lombardia di qualche settimana fa, mentre la Sicilia continuava e continua a combattere contro  gli incendi.

Dalle informazioni raccolte emerge che  per il 16,2%  degli italiani il cambiamento climatico non esiste, e per 34,7%  è convinto che ci sia un eccessivo allarmismo. Queste percentuali salgono quando fanno riferimento ai più anziani e tra i meno scolarizzati

Ciò che aumenta tra gli italiani è la paura e il timore di non essere in grado di riconoscere le informazioni false. Il 76,5% ritiene infatti, che le fake news siano sempre più difficile da scoprire, il 20,2% è convinto di non avere gli strumenti  e le competenze per riconoscerle e il 61,1% di averne solo in parte.

Dal Rapporto Censis si evidenzia, inoltre, come il 29,7% della popolazione neghi l’esistenza stessa delle bufale, ma pensa che siano notizie vere che vengono deliberatamente censurate. 

La ricerca mette in evidenza come sia cresciuta la consapevolezza degli effetti devastanti della disinformazione che può essere arginata da professionisti della comunicazione accreditati come fonti autorevoli e garanti dell’affidabilità e della qualità delle notizie.

Il rapporto del Censis , inoltre, mette in evidenza come sia cresciuta l’esigenza delle persone ad essere informate in modo scientificamente corretto, con la consapevolezza degli effetti devastanti delle notizie fasulle. 

Di fronte alle insidie che possono venire dal web e dall’utilizzo dell’intelligenza Artificiale , per distinguere la buona dalla cattiva informazione, servono competenze solide sulle nuove tecnologie.  Il 64,3% degli italiani usa un mix di informazioni tradizionali e on line, il 9,9%  si affida solo ai media tradizionali e il 19,2% alle fonti on line.

Un fenomeno  che danneggia la qualità dell’informazione è il Greenwashing. Ossia una strategia di comunicazione  che si basa su scelte aziendali in apparenza ecosostenibili allo scopo di occultare l’impatto ambientale negativo.

Un ulteriore modo per  fare informazione  truffaldine è quello  di presentare il tema del riscaldamento terrestre come poco urgente o che la transizione energetica determinerà la perdita di posti lavoro. Questo fenomeno è chiamato baclashing. Ossia oggi non si può più negare in modo esplicito il cambiamento climatico, allora si fa in modo che la transizione avvenga il più tardi possibile .

Quando la relazione uomo-riscaldamento climatico diventa di dominio pubblico inizia una sistematica azione di negazionismo climatico che oggi è molto ben documentata: le industrie che alimentano maggiormente le emissioni climalteranti, in primis le Major dell’Oil&Gas che producono combustibili fossili, spendono miliardi per  campagne di disinformazione,  confondendo i cittadini e seminando dubbi ed obiezioni infondate. 

Dubbi che vengono ripresi anche da quotidiani autorevoli   come il Wall Street Journal e il New York Times, ma anche da emittenti televisive famose come Fox News. 

Non c’è  più tempo

La giornalista del Corriere della Sera Milena Gabanelli ha denunciato  che fra il 2003 e il 2019 alcune organizzazioni pseudo-scientifiche, impegnate nella comunicazione sul negazionismo climatico,  hanno ricevuto dalle Major fossili più di 900 milioni di dollari all’anno di finanziamenti  per campagne di disinformazione  sul clima, finalizzate a negare la correlazione diretta tra le attività umane ed il riscaldamento climatico.  

Il metodo  di negazione adottato è simile a quello utilizzato dall’industria del tabacco,  basato sul diffondere teorie rivolte a negare e screditare il lavoro di migliaia di scienziati, non in maniera argomentata, ma piuttosto tramite una “strategia del dubbio”.

L’inganno da parte delle major fossili era già iniziato negli anni ’80 quando i tecnici della Exxon e della Shell  avevano formulato previsioni, tenute segrete. Tali previsioni erano molto precise e in sostanziale sintonia con quello che è avvenuto nel corso di questi anni circa la crescita delle concentrazioni di gas serra ed il conseguente  aumento delle temperature.

Ma all’opinione pubblica tutto questo è stato nascosto anche perché siamo in presenza di una mole di fake news, prodotte sul riscaldamento climatico, non solo sui social ma anche da professionisti della disinformazione. 

Naturalmente le critiche che abbiamo sollevato non possono essere generalizzate, poichè riconosciamo il valore fondamentale che svolgono i media nel diffondere una cultura  seria ambientale  e nel far capire l’importanza della transizione energetica.

Purtroppo, dobbiamo constatare che oggi l’informazione  sulle tematiche connesse alla crisi del clima non sempre viene fornita con il dovuto rigore scientifico e con un adeguato livello di approfondimento.

Per questo cento scienziati italiani  giorni fa hanno redatto una lettera aperta ai media,  con cui si è voluto sottolineare che omettere o falsificare le notizie sulla crisi del clima “rischia di alimentare l’inazione, la rassegnazione o la negazione della realtà, traducendosi in un aumento dei rischi per le nostre famiglie e le nostre comunità, specialmente quelle più svantaggiate”.                                 

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Bandiera? No, Fiamma tricolore

C-SPAN (nome completo: Cable-Satellite Public Affairs Network) è una televisione via cavo statunitense che offre agli spettatori notizie e attualità sugli avvenimenti di tipo politico che si svolgono negli stati della federazione americana. Campeggia sulla sua home page la scritta “La tua visione non filtrata del governo”. Tra i suoi video (clicca qui a fianco) articoli più visti si segnala l’incontro tra Il leader della maggioranza Schumer (democratico)  il leader della minoranza McConnell (repubblicano) e la premier Meloni. Peccato per l’italica Giorgia che ad un certo punto è stata raggiunta  dall’impertinente curiosità pronunciata dal senatore yankee democratico sul significato del rosso, bianco e verde che compongono la bandiera italiana? “Eh si. Sì, sì. SÌ. È per qualcosa ed è per molte cose, molte, molte cose” l’imbarazzata risposta di Giorgia con gli occhi roteanti rivolti al cielo. Naturalmente la nostra RAI pardon l’EIAR (Ente italiano per le audizioni radiofoniche) ha taciuto in ossequio all’antico e rispolverato motto.
Eppure bastava andare sul sito del Quirinale per apprendere che le sue origini risalgono alla fine del 1700 in quel di Reggio Emilia «quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta “che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti”».
Ricordiamo naturalmente che dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, fu confermata dall’Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all’articolo 12 della nostra Carta Costituzionale. 

Lei invece è rimasta ancora#Atreju2019. 

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Dobbiamo impedire a Biden di inviare bombe a grappolo in Ucraina

Link di Common Dreams

Questa volta non sono solo gli attivisti di sinistra e gli attivisti per i diritti umani a indietreggiare con orrore per l’escalation di Biden in Ucraina, ma anche i democratici del Congresso che in precedenza erano dalla parte del loro presidente.
MEDEA BENIAMINO
MARCY WINOGRAD
10 Luglio 2023
Sogni Comuni

Il presidente Biden potrebbe aver oltrepassato una nuova linea rossa per il Partito Democratico quando ha annunciato che avrebbe inviato munizioni a grappolo vietate per sostenere la lenta controffensiva dell’Ucraina contro le truppe russe.

Venerdì, 19 House Democrats, guidati dal presidente del Congressional Progressive Caucus Pramila Jayapal (D-WA-7), hanno firmato una lettera a Biden avvertendo che la sua decisione di inviare munizioni a grappolo in Ucraina “mina gravemente la nostra leadership morale”.

Questa volta non sono solo gli attivisti di sinistra in CODEPINK e la coalizione per la pace in Ucraina a indietreggiare con orrore per l’escalation di Biden in Ucraina, ma anche i democratici del Congresso che in precedenza erano dalla parte del loro presidente. Questi sono gli stessi democratici che hanno votato per approvare oltre 100 miliardi di dollari di spesa in Ucraina, una metà stimata per armi e assistenza militare per i quali non vi è alcuna responsabilità.

La deputata Betty McCollum (D-Minn.), membro di rango della sottocommissione per gli stanziamenti della difesa della Camera, ha dichiarato a Politico : “La decisione dell’amministrazione Biden di trasferire le munizioni a grappolo in Ucraina non è necessaria ed è un terribile errore… L’eredità delle bombe a grappolo è la miseria, la morte e la costosa pulizia generazioni dopo il loro utilizzo”.

Piuttosto che intensificare una corsa agli armamenti per rischiare una guerra nucleare, l’amministrazione Biden dovrebbe promuovere un cessate il fuoco e negoziati senza precondizioni.

Domenica altri eminenti democratici sono andati in onda, con il senatore Tim Kaine (D-Va.), ex candidato alla vicepresidenza, che ha detto a Fox News di avere “veri scrupoli” sulla decisione del presidente, e la deputata Barbara Lee (D-CA-13), presidente della sottocommissione per gli stanziamenti della Camera per le operazioni estere e candidata al Senato degli Stati Uniti, dicendo alla CNN: “Le bombe a grappolo non dovrebbero mai essere usate . Questo sta attraversando una linea. Il senatore Jeff Merkley (D-Or.) e l’ex senatore Patrick Leahy del Vermont, che ha visitato il Vietnam dopo il ritiro degli Stati Uniti, si sono uniti al coro con un editoriale del Washington Post spiegando come avevano assistito in prima persona agli “effetti devastanti e duraturi che queste armi hanno avuto sui civili”.

Anche prima dell’annuncio ufficiale della bomba a grappolo da parte della Casa Bianca, i Democratici alla Camera Sara Jacobs (D-Calif.) e Ilhan Omar (D-Minn.) hanno introdotto un emendamento al bilancio militare 2024 per vietare il rilascio di licenze di esportazione per munizioni a grappolo.

Il membro del Congresso Jim McGovern (D-Mass.), Il membro di rango del Comitato per le regole della casa, è stato uno dei primi a co-sponsorizzare il disegno di legge. McGovern ha detto alIl New York Times che raggruppa munizioni, “disperde centinaia di bombe, che possono viaggiare ben oltre gli obiettivi militari e ferire, mutilare e uccidere civili, spesso molto tempo dopo la fine di un conflitto”.

L’emendamento, tuttavia, avrà bisogno di un schiacciante sostegno bipartisan per passare, così come di un presidente che obbedirà alla legge se gli sì lo avessero.

Nel dare il via libera alle munizioni a grappolo, Biden ha criticato 18 partner della NATO che si sono uniti a oltre 100 altri Stati membri per firmare la Convenzione delle Nazioni Unite del 2008 sulle munizioni a grappolo. Mentre Biden si dirigeva a Vilnius, in Lituania, per il vertice della NATO questa settimana, Newsweek ha riferito che i rappresentanti di Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda e Spagna non erano a bordo per le bombe a grappolo.

Biden sceglie anche di aggirare l’attuale legge statunitense che limita l’uso di munizioni a grappolo solo a quelle con un tasso di detonazione inferiore all’1%. Nella sua ultima stima pubblicamente disponibile, il Pentagono ha stimato un “dud rate” del 6%, il che significa che almeno quattro delle 72 munizioni di ciascun proiettile non sono esplose quando sono state rilasciate.

Con un inchino ai repubblicani falchi, come il senatore Tom Cotton dell’Alabama, che siede nel Comitato per i servizi armati del Senato, Biden invoca l’ eccezione alla regola incorporata nello statuto contro l’uso di munizioni a grappolo. Questa eccezione consente la spedizione di munizioni a grappolo nell’interesse della vitale sicurezza nazionale.

Chi controlla la regione del Donbass dell’Ucraina orientale, l’esercito russo o l’esercito ucraino, non è certo un interesse per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti al pari di mitigare la minaccia della catastrofe climatica o fornire acqua pulita a coloro che hanno piombo nei loro tubi o investire in alloggi per chi vive senza riparo sotto i cavalcavia dell’autostrada.

Tuttavia, lo stesso presidente Biden che un anno fa ha messo in guardia dal rischio di un Armageddon nucleare, si è nuovamente ribaltato per alzare la posta. Biden prima ha detto di no, poi ha puntato su una serie di armi: missili Stinger, lanciarazzi HIMARS, sistemi avanzati di difesa missilistica, carri armati M1 Abrams, caccia F-16. Ognuna di queste è stata una specie di roulette russa, mettendo alla prova le “linee rosse” di Putin.

Con l’ultima decisione di Biden di inviare bombe a grappolo in Ucraina, gli attivisti anti-nucleari si chiedono se il presidente – la cui Nuclear Posture Review approva il “primo utilizzo” – possa anche oltrepassare la linea rossa nucleare, anche se è Putin che ha lanciato velate minacce nucleari – e Biden e Putin nel giugno del 2021 hanno firmato una dichiarazione che diceva: “La guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta”.

L’impulso per la storica Convenzione delle Nazioni Unite sulle munizioni a grappolo del 2008 è venuto proprio dall’uso indiscriminato di queste armi da parte degli Stati Uniti nel sud-est asiatico negli anni ’60 e ’70. In Laos, l’esercito americano ha ricoperto il paese con quasi 300 milioni di bombe , molte delle quali non sono riuscite a esplodere immediatamente, solo per poi, dopo che gli Stati Uniti si sono ritirati dal sud-est asiatico, mutilare adulti e bambini che hanno accidentalmente calpestato le bombe a grappolo o raccolto le palline lucide pensando che fossero giocattoli.

Sia l’Ucraina che la Russia hanno già utilizzato bombe a grappolo in Ucraina, uno sviluppo duramente condannato dai gruppi per i diritti umani che documentano le conseguenti morti e gravi ferite di civili. Le centinaia di migliaia di proiettili che Biden intende inviare aumenterebbero notevolmente l’uso di queste armi vietate.

La spaventosa decisione di Biden di inviare bombe a grappolo può essere vista come un segno di disperazione di fronte alla fallimentare controffensiva dell’Ucraina nell’Ucraina meridionale e orientale. Biden ha detto alla Galileus Web che è stata una “decisione difficile”, ma l’Ucraina “sta esaurendo le munizioni”. La verità è che l’aggiunta di questa nuova arma indiscriminata non romperà miracolosamente lo stallo per ottenere la “vittoria militare”, ma garantirà che le bombe inesplose alla fine uccidano e feriscano i civili ucraini per gli anni a venire, incoraggiando anche altri paesi a violare il divieto delle munizioni a grappolo.

Nella prossima settimana circa, la Camera potrebbe prendere in considerazione l’emendamento NDAA di Jacobs e Omar mentre il Congresso affronta un budget militare di 920 miliardi di dollari. Ora è un momento critico per gli elettori di fare clic sull’avviso di azione di CODEPINK che richiede ai rappresentanti della Camera di co-sponsorizzare l’emendamento per vietare la licenza di esportazione per le munizioni a grappolo. Mentre gli scettici possono chiedersi se Biden rispetterebbe qualsiasi legge che limiti il suo potere di fare la guerra, solo un’opposizione forte e vigorosa può tirare le leve politiche che controllano il nostro destino.

Piuttosto che intensificare una corsa agli armamenti per rischiare una guerra nucleare, l’amministrazione Biden dovrebbe promuovere un cessate il fuoco e negoziati senza precondizioni. Invece di infrangere il diritto internazionale, gli Stati Uniti dovrebbero rompere lo stallo militare unendosi all’appello globale per una risoluzione diplomatica del conflitto.

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Grappoli di verità

Le munizioni a grappolo (cluster) sono armi di grandi dimensioni, lanciate da aeromobili oppure da sistemi di artiglieria, lanciarazzi e lanciamissili, che si aprono a mezz’aria spargendo ad ampio raggio centinaia (o, nel caso di quelle di artiglieria, decine) di submunizioni più piccole.

Le submunizioni sono progettate in modo da esplodere al momento dell’impatto al suolo. I tassi di mancata esplosione sono tuttavia legati non solo a fattori tecnici ma anche alle condizioni del terreno e all’altezza da cui sono lanciate. Ne consegue che nel caso in cui le submunizioni non funzionino come previsto, esse si depositano nel terreno, diventando particolarmente pericolose, dal momento che possono esplodere al minimo tocco o spostamento. Di fatto le submunizioni inesplose si comportano come mine antipersona. (fonte).

In particolare, con la legge 220/2021 è stato sancito per i fondi pensione il divieto totale di finanziamento di società in qualsiasi forma giuridica costituite, aventi sede in Italia o all’estero, che, direttamente o tramite società controllate o collegate, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, svolgano attività di costruzione, produzione, sviluppo, assemblaggio, riparazione, conservazione, impiego, utilizzo, immagazzinaggio, stoccaggio, detenzione, promozione, vendita, distribuzione, importazione, esportazione, trasferimento o trasporto delle mine antipersona, delle munizioni e submunizioni cluster, di qualunque natura o composizione, o di parti di esse. (fonte).

Ne parlammo in un post dal titolo Quei pappagalli verdi dentro i fondi pensione a pochi mesi dallo scoppio della  guerra. Denunciammo allora i colpevoli ritardi della legge 220 del dicembre 2021 in materia di trasparenza informativa nonché applicativa tant’è che siamo ancor’oggi  in attesa delle famigerate “liste delle società produttrici incriminate pubblicamente disponibili” previste dall’articolo 3 comma 1.  

All’inizio il compito spettava alle autorità di vigilanza (Banca d’Italia, Ivass e Covip). Successivamente il decreto legge 73/2022  assegnò quest’onere ad una commissione interministeriale da costituire entro la fine del 2022 lasciando liberi i fondi pensione di adottare, entro il 31 dicembre 2022, idonei presìdi procedurali e di consultare “almeno gli elenchi pubblicamente disponibili di società che producono mine anti persona e munizioni e sub munizioni a grappolo”.

Alle autorità restava solo il compito emanare, di concerto tra loro, entro il 31 dicembre 2022 apposite istruzioni per l’esercizio di controlli rafforzati.

Cosicché si è preso ancora tempo lanciando l’ennesima consueta consultazione .

Che male c’é tanto la vigna tragica della guerra può attendere indisturbata.

Forse vale la pena di guardare da vicino questi “grappoli”, acino per acino.

Il primo lo riserviamo alla nostra Presidente del Consiglio che all’indomani della decisione di BIden di inviare in Ucraina le famigerate cluster munition esprimeva un blando dissenso motivandolo con il divieto ribadito dai trattati per la “produzione, trasferimento e stoccaggio” delle bombe a grappolo. Peccato che abbia dimenticato che tutti i partiti compreso il suo hanno votato una legge, la n. 220 del 9 dicembre 2021, denominata “Misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, munizioni e sub munizioni a grappolo”.

Il secondo al suo Ministro della Difesa che interrogato, lapidariamente rispondeva “Mosca usa da sempre le bombe a grappolo”. Singolare riflessione che i latini definirebbero  “argumentum ad ignorantiam” che fatalmente porterebbe a sottendere un utilizzo delle armi atomiche dal momento che gli USA le hanno già adoperate per ben due volte.

Il terzo lo dedichiamo a gran parte dei mezzi d’informazione che fanno fatica a pronunciare la parola ONU riuscendo continuamente e pervicacemente a dimenticare  che le bombe a grappolo sono bandite dalla (Convenzione di Oslo, 2008) e le mine anti uomo dalla (convenzione di Ottawa, 1997) entrambe nate nella comune casa delle Nazioni Unite.

Infine l’ultima “perla” la riserviamo al Fondo Cometa che in una news sul proprio sito racconta che fin dal 2017  ha adottato una black list (ovvero, una lista nera) di imprese coinvolte in tali armi controverse al fine di escluderle dai propri investimenti. Peccato che inspiegabilmente questo atto di coraggio risale invece al 2015 come risulta dal bilancio a pagina 23, che di seguito riportiamo. 

Strano refuso di date: invece di intestarsi un merito …lo si posticipa.

 

Un solo rammarico per chiudere sul fondo pensione dei metalmeccanici riguarda la lista elaborata da Moody’s Esg Solution che risulta tuttora   “top secret”!

Noi invece crediamo che se uno Stato come quello Italiano si è dotato di una legge volta ad impedire il finanziamento verso questi strumenti atroci di morte abbia invece tutte le risorse, ogni particolare competenza a cominciare dalla Guardia di finanza, dal Ministero della Difesa e dai Servizi d’intelligence per arrivare a comporre quel mosaico di verità che prende il nome di cluster munition.

L’Ucraina del grano non ha bisogno di questi grappoli

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IL VANGELO E LA COSTITUZIONE Lettera aperta di Don Mimmo Battaglia sull’autonomia differenziata

C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.

L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.

E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.

Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.

L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.

L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.

Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.

Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.

Napoli 15 luglio 2023

 Arcivescovo di Napoli

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